Ci troviamo sul campo devastato della battaglia di Waterloo, appena consumatasi tra le truppe napoleoniche e l’esercito inglese. Un solo uomo è in piedi, un giovane trombettista spaesato ed evidentemente traumatizzato dagli eventi dei quali è appena stato partecipe. La camera si avvicina a lui e lo circonda, lo avvolge con fluidi movimenti fino ad approssimarsi sempre più allo sguardo spaurito del ragazzo che guarda impotente la Storia attraverso cui è passato. Saranno proprio i suoi occhi innocenti e scioccati a portarci negli squallidi sobborghi di Manchester nei quali abita per raccontarci un’altra vicenda che finirà in un altro massacro. Ma andiamo ai fatti.
Il 16 agosto 1819 (quattro anni dopo la disfatta di Waterloo) si raccolse a St. Peter’s Field, Manchester, una folla pacifica di circa 60mila persone, comprese intere famiglie con donne e bambini, per protestare contro la politica repressiva del governo inglese che, con l’applicazione della corn law, aveva bandito le importazioni di grano facendo alzare alle stelle il prezzo del pane, vietava il suffragio universale, teneva bassi i salari e, di fatto, impediva a contee come Manchester di avere degli effettivi rappresentanti parlamentari che non fossero dei magistrati aristocratici eletti da altrettanti aristocratici. Tutte rivendicazioni sacrosante che furono affogate nel sangue dalle truppe del generale Wellington – non presente sul campo perché impegnato con le corse dei cavalli – utilizzate dai prefetti della città, sostenuti dal governo e dalla corona, come squadracce di regime per abbattere un movimento di protesta che, agli occhi del re, poteva sfociare in una pericolosissima rivoluzione come quella francese avvenuta pochi decenni prima. Sul campo rimasero 15 morti, tra cui un bambino, e 600 feriti. In seguito a tale strage cominciò un lento processo di riforme sociali che portò, infine, al suffragio universale nel 1918 e al riconoscimento di molti diritti dei lavoratori.
Il film di Mike Leigh, in concorso a Venezia 2018, non si concentra però sul massacro di Peterloo, così definito dalla stampa dell’epoca con una crasi tra Peter’s Field e Waterloo – che occupa solo gli ultimi trenta minuti di un’opera che dura due ore e mezza –, ma si concentra sui fatti e i discorsi che portarono a quel terribile evento. Leigh procede con una costruzione drammaturgica lenta ma inesorabile che consente allo spettatore di capire tutti i processi che causarono l’irreparabile e lo fa con un incredibile lavoro di documentazione, tramite la stampa dell’epoca, che ha permesso di ricostruire i discorsi politici che venivano fatti da una parte e dall’altra, per arringare le folle oppure per esprimere disprezzo nei confronti di esse. Ecco che Peterloo svela la sua natura di film di parola, di analisi di quei discorsi che ebbero poi effettivamente un’influenza sulla realtà. I comizi vengono riportati in tutta la loro forza emotiva e vitale, anche in tutta l’ingenuità di una certa retorica che cercava di fare breccia nelle coscienze del popolo che credeva fermamente nella pacifica rivendicazione di diritti che non dovevano essere concessi dall’alto ma gli appartenevano in quanto esseri umani e cittadini inglesi. Le pompose esternazioni dei magistrati di Manchester, che non esitavano a mandare alla forca un uomo per il furto di un cappotto e disprezzavano apertamente le masse di cui temevano in realtà la forza, vengono invece rappresentati con grottesca ironia, sfociando forse in un manicheismo un po’ eccessivo, nella divisione netta tra buoni e cattivi.
A scongiurare comunque questo eccesso del film arriva la figura di Henry Hunt (Rory Kinnear), proprietario terriero che si schierò dalla parte dei più deboli e che divenne un famoso oratore, trascinatore di folle. Leigh non risparmia sugli aspetti meschini della figura di Hunt il quale, narcisista fino al midollo, non gradisce la presenza di altri relatori sul palco del comizio di Peter’s Field e guarda al popolo sempre con atteggiamento paternalista e sufficiente, se non addirittura di disprezzo. È chiaro che il suo mettersi a disposizione delle masse nasca da un egocentrismo e da un’ambizione di potere che hanno ben poco a che fare con il reale interesse a curare gli interessi della popolazione. Sarà proprio lui, superbamente convinto che la sua carismatica presenza basti a scongiurare violenze, a proibire agli altri leader riformatori del movimento di protesta di organizzare un servizio d’ordine armato che potesse difendere le persone dai probabili attacchi della guardia nazionale nel corso del comizio. Abbiamo poi visto tutti come è finita. È significativo e ironico, poi, che il film mostri come durante la manifestazione pochi riuscissero davvero a sentire le parole di Hunt, tranne quelli che si trovavano più vicini al palco. Questo a sottolineare la distanza che spesso si crea tra coloro che pretendono di guidare le masse e la massa stessa, nonché la mancanza di comunicazione efficace tra le borghesie illuminate e il popolo.
La messa in scena viene portata avanti in modo molto rigoroso e rivela uno sguardo attento e lucido del regista, il quale, nonostante in passato sia sempre stato magistrale nel ritrarre relazioni umane e sociali, a livello individuale, che esplodevano improvvisamente – il capolavoro Segreti e bugie, Palma d’Oro a Cannes nel 1996, Il segreto di Vera Drake, Leone d’Oro a Venezia nel 2004, Another year (2010) – senza disdegnare anche toni leggeri – La felicità porta fortuna (2008) – e avendo già affrontato film in costume – Topsy-turvy (2000) e Turner (2014) –, qui passa a un ritratto collettivo di rapporti di forza tra classi sociali. E lo fa con inquadrature fisse, dalla composizione quasi pittorica in cui i volti delle persone che seguivano ammirate i comizi sono scolpiti come quadri e diventano essi stessi paesaggi, aiutato in questo dal direttore della fotografia Dick Pope, che ricostruisce sapientemente la luce degli interni con l’uso di candele e chiaroscuri molto suggestivi.
Nel film, ovviamente corale e protagonista è la massa che viene rappresentata da una manciata di personaggi chiave tra cui ritroviamo il ragazzo trombettista del prologo, sopravvissuto a Waterloo, che interviene con tutta la sua famiglia alla manifestazione del 16 agosto. Joseph, questo il nome del giovane circondato dall’affetto della sua umile famiglia, si fa portatore dello sguardo puro di chi non comprende realmente la portata degli eventi che sta attraversando ma ne viene ugualmente travolto.
La gestione visiva del massacro, che come dicevamo impegna solo l’ultima mezzora di film, è molto precisa, con numerose inquadrature fisse e leggeri movimenti di macchina che permettono di concentrare l’attenzione su poche situazioni relative ad alcuni personaggi, senza l’abuso di campi lunghissimi stipati di massa, concedendo poco alla spettacolarità e, soprattutto, senza indulgere in dettagli cruenti che spesso diventano emotivamente ricattatori.
Ciò che conta, però, è la progressiva inesorabilità degli eventi che hanno portato la manifestazione ad attuarsi e le ragioni storiche e sociali che vi sono dietro, dispiegate in una messinscena che dà risalto alla parola e ai discorsi come fulcro e motore della Storia, stratagemma narrativo che avvicina non poco il film di Leigh allo spielberghiano Lincoln (2012), nel quale i comizi politici pure la facevano da padrone. Ma se la verbosità sicuramente allontanerà una fetta di spettatori, lo sguardo incisivo, apparentemente distaccato del regista – in realtà partecipe del destino dei suoi personaggi – rende giustizia a un fatto storico che ancora oggi riverbera in un’attualità nella quale molti diritti sacrosanti sono tuttora in discussione.