Si stava preparando per celebrare messa nella sua parrocchia di San Nicola di Bari a Casal di Principe quando un uomo gli si presentò davanti in sagrestia:
«Chi è Don Peppino?»
«Sono io»
Due pallottole gli centrarono il volto e altre tre gli bucarono testa, collo e mano. Fu ucciso così, dalla camorra, Don Peppe Diana. Aveva solo 36 anni, era il 19 marzo 1994. Freddato come l’Arcivescovo di San Salvador dalla dittatura militare del suo Paese mentre stava celebrando messa trentanove anni or sono.
Don Peppe, dopo gli studi in Teologia e Filosofia, tornò a Casal di Principe, suo paese natale, dove presto il suo modo di essere prete non fu gradito dal sistema camorristico, politico, affaristico che ne decretò la morte al pari di chi non si adegua alle regole del boss di turno, proprio come i militari sudamericani con il Vescovo Romero.
In occasione del Natale del 1991, si rese promotore, con altri sacerdoti della zona, di un documento contro il sistema criminale, Per amore del mio popolo non tacerò, che forse segnò l’inizio della fine: […] È oramai chiaro che il disfacimento delle istituzioni civili ha consentito l’infiltrazione del potere camorristico a tutti i livelli. La camorra riempie un vuoto di potere dello Stato che nelle amministrazioni periferiche è caratterizzato da corruzione, lungaggini e favoritismi. La camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc., non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini; le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio. Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di realtà, di testimonianze, di esempi, per essere credibili.
Tra le numerose iniziative a favore dei più piccoli e dei giovani, organizzò anche un centro di accoglienza per immigrati africani per evitare che la camorra se ne servisse come manovalanza e in più occasioni denunciò il sistema affaristico della politica locale e della commistione con la potente organizzazione criminale che in quegli anni aveva come maggiore esponente Francesco Schiavone detto Sandokan.
La camorra, quindi, non completamente soddisfatta dell’esecuzione del prete in strada tra la gente, in jeans e talvolta con il mezzo sigaro toscano tra le labbra, prima e nel corso dello svolgimento del processo ai mandanti ed esecutori dell’assassinio, ne decretò la morte alla memoria in perfetto stile mafioso, servendosi anche di qualche giornale locale, tentando di depistare le indagini, coprendolo di fango, accusandolo di essere stato frequentatore di prostitute, pedofilo, custode di armi destinate a uccidere il Procuratore Cordova, insomma la calunnia tipica del copione malavitoso.
Un testimone della verità contro la barbarie di un sistema che ha piegato e piega interi territori, lasciato fare dall’assenza complice dello Stato che il parroco, insieme ad altri sacerdoti, aveva esplicitamente denunciato con quel documento, In nome del mio popolo non tacerò, che sarà anche il tema di una cerimonia che in occasione del venticinquesimo anniversario della sua uccisione, il Comune di Napoli commemorerà martedi 19 marzo, alle ore 18, presso la Sala dei Baroni del Maschio Angioino con un’introduzione dell’Assessore Alessandra Clemente e un ricordo di Don Tonino Palmese, cui seguirà la presentazione del libro Cravattari di Fortunato Calvino che sarà introdotto dall’Assessore alla Cultura Nino Daniele, con gli interventi di Giulio Baffi, Livio Varriale, Giuseppina Scognamiglio e Diego Guida.