Momenti di trascurabile felicità, il nuovo film di Daniele Luchetti, parte dall’alto di alcune enormi gru dove l’aria è più rarefatta, leggera, e dove lavora l’ingegnere Paolo (Pif). La camera svolazza leggiadra tra i giganti di ferro del cantiere, quasi a prefigurare la leggerezza che pervaderà la storia e la rarefazione della narrazione che caratterizzerà l’intera pellicola.
Subito il protagonista muore in un incidente di scooter e finisce in una sorta di sala d’aspetto dell’aldilà – nulla a che vedere con il visionario ufficio burocratico del burtoniano Beetlejuice (1988) da cui comunque prende spunto – dove il funzionario Renato Carpentieri – sempre in parte e convincente – gli spiega che per un errore burocratico – non sono state conteggiate le salutari centrifughe che Paolo ha preso per tutta la vita – il nostro ha diritto a un’ora e 32 minuti in più di vita, che poi sarà anche la durata reale del film.
A questo punto finisce la parte interessante e purtroppo ci addentriamo nel mondo di Paolo – il cui personaggio non fatichiamo a identificare con la svagatezza di Pif – fatto appunto di trascurabili felicità che richiamano non poco le piccole gioie quotidiane nonché le idiosincrasie di cui si nutriva Amélie Poulain nel cult del 2001 Il favoloso mondo di Amélie oppure, ancora, certi morettismi o esternazioni alla Woody Allen che costituiscono la scorza esteriore di film che erano però riflessioni esistenziali importanti. Qui, invece, tutto rimane claustrofobicamente nel minuscolo mondo di Paolo, in una Palermo sui generis dove la mafia non uccide più neanche d’estate e la storia non decolla mai.
Il film resta impantanato in quella rarefazione del racconto di cui si diceva, senza mai ingranare per davvero: si inanellano una serie di scene tra passato e presente in cui si scopre la vita di questo personaggio medio che vive di piccole bugie su cose non importanti, di grandi tradimenti nei confronti della moglie – un’intensa e bravissima Thony – esperiti con la gaudente inconsapevolezza dello sguardo sempre uguale di Pif, di vigliaccherie di poco conto che tutti prima o poi si trovano a gestire nella vita quotidiana e di gravose domande esistenziali come, per esempio, quando chiudiamo la porta del frigorifero la luce interna si spegne davvero? oppure perché quando prendo un taxi allo stazionamento, il primo che scelgo non è mai veramente il primo disponibile?
Nel presente il nostro Paolo cerca goffamente di recuperare il rapporto con i figli e la moglie e, in un sorta di inversione de La vita è meravigliosa (1946) di Capra, si rende conto di non essere poi così indispensabile. Il che non significa che la separazione definitiva dai suoi cari potrà avvenire senza dolore. Qui si potrebbe pensare che il film ne guadagni emotivamente ma non è così. Il problema è che da un lato tutto viene vissuto dalla fissità dello sguardo di Pif, nonché dal cantilenare inespressivo della sua voce (diciamolo, non è un attore). Pierfrancesco Diliberto, infatti, attraversa la storia con quella sua tipica aria stralunata che, se sulla carta dovrebbe funzionare in un film surreale come questo, ma nei fatti non comunica nulla allo spettatore. Dall’altro, però, è l’impianto generale dell’opera che non funziona perché procede per un accumulo aneddotico di piccoli eventi passati e presenti che tuttavia non regalano uno spessore esistenziale alla vicenda, ma strappano solo qualche sorriso ogni tanto e restituiscono il quadro di un personaggio, certamente non lontano dalla nostra quotidianità, per il quale è difficile provare una vera empatia e verso il quale lo sguardo dell’autore è fin troppo indulgente.
Il dittico di romanzi Momenti di trascurabile felicità e Momenti di trascurabile infelicità di Francesco Piccolo (anche co-sceneggiatore) su cui è basato il film sono anch’essi anti-narrativi nel senso che sono costituiti da una serie di aforismi, sotto forma di aneddoti, in cui l’autore filosofeggia appunto di quei piccoli momenti, positivi o negativi, che danno sapore alla vita quotidiana e la definiscono. Da questo punto di vista l’adattamento si potrebbe dire riuscito proprio per il modo in cui il film rende l’andamento aneddotico del libro ma è proprio qui che forse ci voleva la ricerca di una trama un po’ più forte, nonostante l’efficace stratagemma della cornice fantasy nell’ufficio dell’oltretomba.
Purtroppo alla fine della visione non resta granché. Stupisce e dispiace che un autore del calibro di Luchetti, che ha saputo districarsi tra capolavori di cinema civile come Il portaborse (1991), ritratti graffianti della realtà sociale e storica del Paese come Arriva la bufera (1992) La scuola (1995), Mio fratello è figlio unico (2007), La nostra vita (2010), e piccoli divertenti cult in cui maneggiava con disinvoltura e maestria materie più leggere – Dillo con parole mie (2003) – firmi un’opera così inconsistente e, appunto, trascurabile.