Ancona, marzo 2015. Una ventiduenne di origini peruviane decide di andare a bere qualcosa con due coetanei che frequentano con lei la scuola serale. Bevono una birra, poi un’altra e poi ancora un’altra: insomma, ne bevono fino a diventare brilli. La ragazza, allora, si apparta con uno dei due amici e, se in un primo momento quello che succede tra i due sembra essere consensuale, per lei, a un certo punto, smette di esserlo. Così, lui la stupra, mentre l’altro fa da palo per lasciargli svolgere il malsano e disgustoso atto. Il giorno dopo, la giovane si reca con la madre al pronto soccorso, denunciando quanto accaduto. I medici notano delle lesioni, che per loro sono effettivamente segni di una violenza.
Il 6 luglio del 2016 i ragazzi subiscono un processo di primo grado e vengono condannati: allo stupratore vengono inflitti come pena cinque anni di carcere, mentre a chi lo ha coperto tre. Entrambi decidono di fare ricorso in appello. Il 23 novembre 2017 il caso viene revisionato e la condanna annullata. I giudici, tre donne, sentenziano: […] in definitiva, non è possibile escludere che sia stata proprio la ragazza a organizzare la nottata “goliardica”, trovando una scusa con la madre, bevendo al pari degli altri per poi iniziare a provocare Melendez (al quale la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo di “Vikingo”, con allusione a una personalità tutt’altro che femminile, quanto piuttosto mascolina, che la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare) inducendolo ad avere rapporti sessuali per una sorta di sfida. I giudici affermano quindi che per il suo aspetto mascolino la ventiduenne mai avrebbe potuto subire una violenza, anzi, addirittura insinuano che sia stata lei a voler questo epilogo per la serata. In sintesi, siamo ancora una volta davanti a un esempio di colpevolizzazione della vittima.
Non è raro, nella nostra cultura, che chi subisce un reato grave quanto la violenza sessuale venga considerato la causa di quanto patito. Soprattutto quando si è donna, a qualsiasi molestia, è normale sentirsi porre domande come: Lo hai provocato? Portavi un vestito troppo corto? Eri esageratamente truccata? Camminavi da sola per strada a notte tarda? Hai preso il treno dopo le 18:00? Avevi bevuto troppo? D’altronde, si sa, se sei donna è meglio che porti sempre pantaloni e maglie a collo alto e che non beva mai un bicchierino di troppo perché, altrimenti, se succede qualcosa, te la sei cercata: se qualcuno ti stupra e tu sei ubriaca, allora l’aggravante non c’è. Se tuo marito o il tuo compagno ti costringono a fare sesso, allora non stai subendo nessuna violenza. Se non dici chiaramente no, allora sei consenziente e l’uomo non ha nessuna responsabilità.
Nelle parole pronunciate dal tribunale di Ancona non si legge che la giovane portasse un abito troppo succinto, ma comunque viene in qualche modo ritenuta colpevole. Anzi, ancora peggio, per il suo modo di essere viene ritenuta una vittima improbabile per lo stupro. I tre giudici negano persino il diritto della fanciulla di soffrire per l’accaduto e, più in generale, ancora una volta, contestano al genere femminile il diritto di reputarsi vittime senza colpe. Il loro discorso, per di più, è diniego – all’ennesima potenza – della libertà di qualsiasi donna a essere quello che è e che vuole essere. In fondo, se gli stupratori possono usare violenza su chi porta una gonna senza essere additati come completamente rei, non lo sono per niente se la vittima portava dei pantaloni e una felpa larga o ha dei tratti che non si conformano ai canoni di bellezza femminea ideale. In questo senso, dunque, le donne sono sempre responsabili.
La cosa che rende la vicenda ancora più triste? Sicuramente il fatto che a emettere la sentenza – fortunatamente revocata dalla Cassazione – siano tre donne, che in un momento di lotta per la parità dei genere, voltano le spalle al loro sesso, perpetuando quella pressione costante e contraddittoria a cui proprio le donne vengono continuamente sottoposte. Una pressione che richiede il conformasi ha il dovere di negare per non essere considerate delle poco di buono o provocatrici. Le tre, a loro modo, rompono un patto di solidarietà che dovrebbe esserci tra tutte le donne e, ancora più grave, fingono di non sapere che quel reato negato è talmente diffuso che circa 1 milione e 157mila persone appartenenti al loro sesso lo hanno subito almeno una volta nella vita.