Pare che attorno ai film Marvel si sia generata una grossa anomalia critica, anzi una singolarità, se vogliamo usare un termine fantascientifico che in genere sta a indicare squarci nel continuum spazio-temporale. Abituati come siamo a giudicare ogni lavoro della casa delle idee solo come parte di un progetto più grande, di una raffinata strategia narrativa all’interno della quale la pellicola di turno costituisce soltanto un ulteriore tassello, siamo pertanto portati spesso a giustificare e avallare elementi sui quali non saremmo così indulgenti se li trovassimo in altre opere.
Questa tendenza ha preso una piega paradossale per cui ormai si è creata quasi una bolla critica attorno ai film del MCU (Marvel Cinematic Universe) nella quale tutto è concesso e ben visto, a dispetto della generale e forse inevitabile standardizzazione che, arrivati al ventunesimo capitolo, si è insinuata nei film di Iron man & co. Ammettiamolo, la formula ha stancato: a parte i capitoli dedicati agli Avengers – di cui Infinity: War è stata la punta di diamante, vista la mole di personaggi e sotto-trame che i fratelli Russo hanno gestito così bene nell’arco di un unico film –, ormai gli altri non sono altro che origin story con annessi sequel, ognuna simile all’altra – tra i recenti si salva solo il lisergico Doctor Strange (2016) – e Capitan Marvel non fa eccezione. Personaggio creato nel 1967 da Stan Lee e Gene Colan, ha avuto varie incarnazioni fumettistiche maschili e femminili prima di approdare a quella attuale e, soprattutto, ha trovato nella graphic novel di Jim Starlin del 1982, La morte di Capitan Marvel, il suo massimo compimento.
Il prologo ha il sapore di una space-opera d’altri tempi nella quale il popolo degli avanzati Kree, simili a noi terrestri, combatte una guerra immemore contro i malvagi – e rettiloidi – mutaforma Skrull. È la prima volta, tra l’altro, che in un film Marvel si esplora questa porzione cosmica di cui si era solo accennato nei capitoli dedicati ai Guardiani della galassia. Tra le fila dei Kree, milita Vers (Brie Larson), una combattente addestrata dal colonnello Yon-Rogg (Jude Law), suo mentore, che le insegna a non lasciarsi dominare dalle emozioni durante la battaglia, cosa che fa molto maestro Jedi. Nel corso di una missione, Vers finisce sulla nostra Terra degli anni Novanta – nel 1995 per la precisione – e, pian piano, scopre che in realtà la sua origine è terrestre – era una pilota dell’esercito degli Stati Uniti – e che per qualche motivo era stata portata via e addestrata come Kree. Niente paura, nessuno spoiler, sono tutte informazioni già veicolate dai trailer. Compito di Vers sarà ricostruire il proprio passato e la propria identità, venire a capo dei suoi poteri – qualcosa di davvero devastante che la pone allo stesso livello di un Superman all’interno dell’universo DC – e sciogliere definitivamente le scaramucce tra Kree e Skrull. Vista l’epoca temporale in cui si svolge, Capitan Marvel si può considerare a buon diritto il prequel di tutto l’universo cinematico Marvel.
Sulla Terra la nostra eroina farà la conoscenza di un giovane Nick Fury, figura iconica del MCU, qui interpretata da un Samuel L. Jackson ringiovanito digitalmente – incredibili i risultati del de-aging – e tramutato in una spalla comica decisamente troppo in contrasto con il carattere burbero che abbiamo imparato a conoscere con gli altri film della saga. Si potrebbe pensare che qualche evento traumatico gli farà passare la voglia di scherzare e invece no.
Dopo aver perso l’occhio – lo sapevamo tutti che in questo prequel sarebbe successo per arrivare a diventare il Fury che conosciamo – lo vediamo lavare amabilmente i piatti in compagnia di Carol Danvers – questo il nome dell’identità terrestre di Capitan Marvel – e improvvisare una sorta di karaoke dei poveri. Fosse solo questo il problema del film, però, saremmo a posto. Ma il voler giocare sulla nostalgia anni Novanta, piazzando qua e là qualche hit musicale dell’epoca (Garbage, Elastica, Nirvana, No doubt, TLC, le Hole di Courtney Love e perfino Mel C., sì, avete capito bene, Mel C., la più sfigata delle Spice Girls) senza un minimo criterio e lontano anni luce dalla raffinatezza di un’operazione pop come Guardiani della galassia nella quale James Gunn ha pescato brani non banali utilizzandoli con una sapienza registica che qui ci sogniamo, è uno stratagemma che non paga e non può reggere.
Divertenti le gag sulla lentezza delle connessioni internet e sui tempi di attesa per caricare un semplice CD-Rom, ma ci vuole ben altro per giocare efficacemente con l’effetto nostalgia, si vedano per esempio le prime due stagioni di Stranger things (a prescindere dal fatto che la serie Netflix era ambientata negli Ottanta). Anzi, temiamo che Capitan Marvel possa essere l’apripista di una tendenza cinematografica, forse già in corso, al revival anni Novanta dopo che il decennio precedente è stato già ampiamente spremuto, prima dal succitato Stranger things, continuando poi con una serie di titoli dimenticabili fino all’apoteosi avvenuta l’anno scorso con il riuscito Ready player one. Infine, c’è un grossolano errore cronologico nel momento in cui Fury, per fare una battuta, parla della password per il Wi-Fi: nel 1995?
I fan saranno comunque contenti di ritrovare un giovane Phil Coulson, agente dello SHIELD caduto in battaglia nel primo Avengers e interpretato dal sempre bravo Clark Gregg, anche lui ringiovanito digitalmente, nonché il cattivo Ronan (Lee Pace) del primo Guardiani della galassia in una breve comparsata. I siparietti comici tra Carol e Nick strappano qualche sorriso ma alla lunga stancano e, come si diceva, snaturano un personaggio come Fury che abbiamo imparato ad amare per altre qualità. La protagonista Brie Larson – premio Oscar nel 2016 per Room – è molto intensa e credibile, il buon Ben Mendelsohn, ormai abbonato a ruoli da cattivo, fa il suo. Jude Law mette in scena Jude Law. Annette Bening è sprecata nei panni di scienziata/mentore/entità divina ma è ormai prassi in queste produzioni condire il cast con grossi nomi, vagamente agé, in ruoli da comprimari. Gli effetti visivi sono molto efficaci ma questo è il minimo sindacale in una produzione come questa. Il look degli Skrull, infine, è volutamente vintage, fa molto serie di Star Trek di vent’anni fa, forse un po’ troppo.
Come si diceva, Capitan Marvel, in quanto origin-story di un supereroe, non si discosta tanto da una formula ormai consolidata e che, sinceramente, sta mostrando il fiato corto. È, infatti, chiaro fin dal principio che il vero superpotere di Carol non sono i raggi che sprizza dalle mani ma è la forza interiore che l’ha sempre accompagnata nel corso della sua esistenza e che le permetterà di scoprire chi è veramente e da che parte stare nel conflitto tra le due razze galattiche. Se per caso tutto ciò vi suona banale e già visto non temete: è proprio così. Per non parlare dell’effetto straniamento che la protagonista subisce quando si trova catapultata sulla Terra di cui non conosce usi e costumi. Cosa declinata mille volte e meglio in un’infinità di altri film. La velocità con cui poi Carol si abitua alle consuetudini terrestri è sorprendente e poco credibile, anche considerando la sua origine umana, particolare di cui però non ricorda nulla all’inizio.
Indubbiamente, la continuity dell’universo Marvel è salva e infatti i fan vedranno incastrati perfettamente alcuni tasselli rimasti in sospeso dagli ultimi film – comprese le origini del tesseract del primo Avengers nonché la ragione del nome del famoso consorzio di supereroi – e già pregusteranno il prossimo Avengers: Endgame in arrivo a fine aprile, di cui questo Capitan Marvel costituisce una sorta di aperitivo.
Stendiamo un velo sulle polemiche sterili che hanno accompagnato la pellicola e la sua interprete che si è fatta portavoce di un femminismo oltranzista che non ha giovato al film e che sarebbe soltanto ridicolo considerare come manifesto di un femminismo anni dieci, cosa che invece sarebbe certamente gradita in casa Disney. Sicuramente la condizione femminile non ha bisogno di supereroine a raggi fotonici e di ipocrite quote rosa all’interno del cast tecnico-artistico (sono donne la co-regista del film Anna Boden, la co-montatrice Debbie Berman e l’autrice della colonna sonora Pinar Toprak) che suonano come il solito contentino, per poter affermare la parità di diritti tra i generi.
La cosa che davvero si salva è il tenerissimo e sorprendente – non diciamo perché – gatto Goose, il cui nome è un chiaro omaggio a Top Gun: Goose era infatti il nome dell’amico di Maverick/Cruise interpretato all’epoca da Anthony Edwards. In un breve flashback vediamo la giovane pilota Carol che, scesa dall’aereo, schiaccia il cinque con l’amica e collega Maria Rambeau (Lashana Lynch) in un palese riferimento all’analoga scena di Top Gun in cui Maverick e Goose schiacciavano a loro volta il cinque al grido macho di need for speed. Così si chiude anche il cortocircuito con gli Eighties.
Appuntamento, quindi, al 24 aprile con Avengers: Endgame, fine dei giochi.