A quasi un anno dalle ultime elezioni politiche, dove ha ottenuto un ottimo risultato, il M5S perde, nelle competizioni regionali in Abruzzo e in Sardegna, oltre il 50% dei consensi.
In qualsiasi altra formazione politica – tranne Forza Italia il cui numero uno, anche con un clamoroso tonfo, mummificato e sempre sorridente resta saldo al suo posto – il segretario di partito, dopo due sonore sconfitte e sondaggi di tutti i maggiori istituti che da mesi prevedono non solo quelle di questi giorni ma anche i risultati delle prossime Europee, rassegnerebbe immediatamente le dimissioni. Persino l’arrogante leader del PD Matteo Renzi si vide costretto, all’indomani della solenne débâcle dello scorso marzo, ad andare a casa, anche se con strani rinvii e tentennamenti. O, per citarne un altro, nel febbraio di dieci anni il primo Segretario del Partito Democratico Walter Veltroni, pur riportando uno dei migliori risultati elettorali della coalizione nel 2008, lasciò la carica a seguito della vittoria di Silvio Berlusconi.
È pur vero che le recenti sconfitte si riferiscono a Elezioni Regionali, ma rappresentano comunque un fallimento importante per il responsabile politico del MoVimento, Luigi Di Maio, la cui leadership anche qualche parlamentare come la Senatrice Paola Nugnes ha chiesto di porre in discussione. Intanto, il fondatore e comproprietario con la Casaleggio Associati del M5S, Beppe Grillo, come riportato da alcuni organi di stampa, registrando sempre più malumori tra gli iscritti, sembra abbia esternato la necessità di rompere quanto prima l’alleanza con la Lega, che in meno di un anno ha fatto man bassa di consensi a scapito proprio dei pentastellati, pensiero che qualsiasi persona dotata di media intelligenza e realismo politico ha fatto anche supportato dai risultati catastrofici di questi giorni.
Va detto che il comico è andato al cuore del problema, sottolineando ciò che è sotto gli occhi di tutti: la subalternità di Di Maio e compagni, i complici silenzi o, peggio, le esternazioni di qualche rappresentante di governo che, evidentemente ignaro del suo ruolo, ha lasciato fare e dire al pluriministro Matteo Salvini cose non vere ma di effetto sui soliti fan. Esempio clamoroso è la chiusura dei porti dei quali non si registra alcun provvedimento del Ministero competente o dell’Autorità portuale. Va aggiunta, inoltre, la vergognosa recente sceneggiata della votazione degli iscritti per una decisione di esclusiva competenza parlamentare, di atti da consultare e verificare in commissione e non a conoscenza di un qualsiasi sig. Rossi sulla discutibile piattaforma della quale non è dato sapere l’affidabilità e l’eventuale manovrabilità da parte della proprietà, il tutto pur di non stracciare quel contratto barattando l’ennesimo rinvio sulla decisione della realizzazione della TAV che Salvini certamente adopererà come arma nella prossima competizione elettorale europea.
Sarà il piccione viaggiatore Di Battista, stranamente e apparentemente fuori dai giochi, con il suo piglio da agitatore di studenti a tentare di ricompattare le fila attaccando anche l’alleato per cercare di recuperare non solo credibilità ma anche consensi che sempre più sono scivolati verso il celudorista? Converrà tenere ancora salda l’attuale compagine governativa al Matteo tuttofare, con un piede al governo e l’altro nel centrodestra, con ciò che rimane di Fratelli d’Italia e Forza Italia, comunque usciti rafforzati in Abruzzo e Sardegna?
In questi prossimi due mesi potrebbe accadere di tutto e quello che ingenuamente si ritiene ormai fuori dalla scena potrebbe vendersi l’anima per barattare una possibile candidatura alla presidenza della Repubblica cedendo lo scettro del centrodestra al leader del Carroccio, certo di un potenziale consenso rafforzato ulteriormente da qualche respingimento di quattro poveri disgraziati, anche ben organizzato, che farebbe tanto godere i razzisti di casa nostra come del resto è stato con la Diciotti, che ha rappresentato un ottimo strumento per la propaganda sempre più incalzante in vista di maggio.
Non sarebbe il caso di interpellare gli iscritti a votare sulla piattaforma Rousseau per decidere se, dopo i clamorosi tonfi, sia il caso che il loro capo politico si dimetta e riconosca il proprio fallimento? Decideranno gli iscritti? Grillo? Casaleggio? Oppure silenzio per i prossimi settanta giorni e, magari, dopo la catastrofe imminente la spaccatura sarà così inevitabile che non ci sarà piattaforma che conti? Il confronto de visu sarà l’unica strada – non virtuale – che potrebbe ricompattare i movimentisti della prima ora obbligati oggi a starsene in silenzio.