Si apre sull’inconfondibile ritmica di We will rock you questa novantunesima edizione degli Oscar e tutta Hollywood si alza in piedi, compresa una scatenata Glenn Close, per omaggiare i Queen, in questo caso capitanati dal bravo Adam Lambert. L’apoteosi prosegue con We are the champions, forse l’altro brano più cantabile e coinvolgente del repertorio della band inglese. Almeno in parte nel segno di Freddie Mercury, la serata proseguirà con 4 Oscar a Bohemian Rhapsody per il miglior montaggio, suono, montaggio sonoro e, soprattutto, miglior attore protagonista a Rami Malek, che nel suo emozionatissimo discorso dichiara: «Abbiamo fatto un film su un omosessuale immigrato che ha vissuto impudentemente la sua vita e il fatto che stasera stia festeggiando con voi lui e la sua storia è la prova che noi desideriamo storie come questa. Sono figlio di un immigrato egiziano, sono un americano di prima generazione, parte della mia storia la sto scrivendo ora e non potrei essere più grato a ognuno di voi». Migliore stoccata a Trump non potrebbe esserci.
Non è un caso che tra i mille ringraziamenti dell’attore non ci sia Bryan Singer, regista di Bohemian Rhapsody ma grande assente in tutte le premiazioni che hanno riguardato finora il biopic sui Queen in quanto coinvolto in scandali sessuali ancora non chiariti, cosa per la quale è stato allontanato dal set prima della fine delle riprese, portate poi a termine da Dexter Flechter. È interessante, comunque, che un film con una produzione tanto travagliata abbia poi mietuto un tale successo sia come incassi (850 milioni di dollari nel mondo) che come riconoscimenti (più che altro a Malek). La performance mimetica dell’attore di origine egiziana nel ruolo del frontman è strepitosa, anche se un premio alla grande prova di Christian Bale nei panni del mefistofelico Dick Cheney, vicepresidente burattinaio di George W. Bush, in Vice sarebbe indubbiamente altrettanto meritato.
Difficile trovare un unico vincitore in questa cerimonia degli Oscar 2019 perché le statuette sono, più o meno equamente, distribuite tra tutti. Quello che rimane maggiormente a bocca asciutta, però, è certamente La favorita che, forte di ben 10 nomination, vince solo un meritatissimo titolo con l’attrice protagonista Olivia Colman nel ruolo della capricciosa regina Anna. L’altro film che partiva avvantaggiato con altrettante candidature, e cioè Roma, ne vince invece 3: miglior regia, fotografia e film straniero, tutti ritirati da Cuarón in quanto autore in prima persona anche della sontuosa ed evocativa fotografia del suo lavoro.
Va detto che se l’Academy avesse persistito nella scellerata decisione di non trasmettere in diretta i premi per miglior fotografia, montaggio – categorie che definiscono l’arte cinematografica in quanto tale poiché esistono solo nel cinema, come ha fatto giustamente notare lo stesso Cuarón in un suo recente tweet di protesta –, trucco e acconciature, nonché cortometraggio, non avremmo potuto vedere il regista messicano ringraziare il suo storico direttore della fotografia Emmaunel Lubezki che non ha lavorato solo a questo film. Scherzando, l’autore di Roma ha poi ricordato che Billy Wilder aveva un cartello nel proprio ufficio su cui c’era scritto Cosa avrebbe fatto Lubitsch? e così lui stesso ha appeso nel suo studio una domanda analoga: Cosa avrebbe fatto Chico Lubezki?. Nel discorso di ringraziamento per il miglior film straniero, invece, introdotto da Javier Bardem che non risparmia una battuta su certi muri che inopinatamente vengono costruiti, il pluripremiato della serata confessa di aver trovato ispirazione nei lavori in lingua e non è difficile immaginare che tale ispirazione, soprattutto per Roma, possa essere nata anche guardando tanto cinema neorealista italiano. Inoltre, ricevendo la statuetta come miglior regista, consegnata da un emozionato Guillermo del Toro, dice: «Ringrazio l’Academy per aver riconosciuto il valore di una storia che racconta di una donna indigena, una di quelle 17 milioni di persone senza diritti, storicamente sempre relegate sullo sfondo dal cinema. Ed è questa la nostra responsabilità di cineasti, soprattutto in questo tempo, in cui si è facilmente spinti a guardare dall’altra parte».
Momento memorabile è l’Oscar per la miglior sceneggiatura non originale a Spike Lee che salta letteralmente in braccio a un felicissimo Samuel L. Jackson che lo proclama vincitore urlando a squarciagola il suo nome. Salito sul palco insieme a Charlie Wachtel, David Rabinowitz, Kevin Willmott, (co-autori dello script di Blackklansman), Spike ricorda i suoi antenati i quali, a partire dal 1619 sono stati portati in catene nel Nuovo Continente che hanno contribuito loro stessi a costruire nonostante un sistematico genocidio. Il regista cita anche sua nonna che ha vissuto 100 anni, laureata al college, figlia di una schiava, che chiamava affettuosamente suo nipote Spiky poo, mettendo da parte gli assegni dell’assistenza sociale per farlo studiare. Poi, con una divertente citazione del suo film più famoso dichiara: «Le elezioni del 2020 sono dietro l’angolo, mobilitiamoci tutti, stiamo dalla parte giusta della storia, fate la scelta giusta tra l’amore e l’odio, facciamo la cosa giusta!». Anche qui la frecciata a Trump è servita.
Senza nulla togliere a Cuarón – che ha già vinto un Oscar nel 2014 per la regia di Gravity – avremmo preferito che Spike Lee vincesse la statuetta per la miglior regia, riconoscimento che sarebbe stato certamente più importante e meritato per il regista afroamericano autore di capolavori come Fa’ la cosa giusta, Jungle fever, La 25° ora, sempre snobbato dall’Academy. Non nasconde la sua rabbia quando, al momento della proclamazione dell’Oscar per il miglior film andato a Green Book, giudicato da Lee troppo buonista, Spike si alza disgustato dal suo posto e cerca di abbandonare la sala ma viene fermato dagli addetti alla sicurezza. In effetti, Green Book, che si porta a casa anche i premi per il miglior attore non protagonista – il bravissimo Mahershala Ali già vincitore dello stesso premio due anni fa con Moonlight – e miglior sceneggiatura originale, gioca molto facile sfruttando il tipico contrasto di caratteri tra un personaggio ingessato e ossequioso delle regole, come il pianista afroamericano Don Shirley, e il sempre sopra le righe, nonché logorroico italoamericano Tony Lip interpretato da Viggo Mortensen, in viaggio nei razzisti Stati del sud dell’America nel 1962. I due imparano ovviamente a conoscersi e rispettarsi nel corso di un road movie molto prevedibile che riesce però a coinvolgere efficacemente gli spettatori con una sceneggiatura ben oliata e due attori eccelsi.
Momento molto intenso è quello tra Bradley Cooper e Lady Gaga che si esibiscono in un intimo ed emozionante duetto di Shallow, brano tra l’altro vincitore della statuetta come miglior canzone originale per A star is born. L’intesa tra i due è palpabile e in molti pensano a un possibile bacio quando, alla fine dell’esibizione, i loro volti sono ormai vicinissimi. La stessa Lady Gaga ci regala poi un’altra emozione commuovendosi fino alle lacrime al momento del ritiro del premio, rivolgendosi a Cooper, suo regista e partner sullo schermo, in questo modo: «Non c’è una singola persona su questo pianeta che avrebbe potuto cantare questa canzone con me tranne te».
Dispiace, infine, che un lavoro dalla sceneggiatura scoppiettante e dalle trovate davvero originali – il finto finale con titoli di coda a metà film, le divertentissime e caustiche digressioni surreali che chiarificano concetti ed eventi storici senza annoiare – come Vice – l’uomo nell’ombra, di Adam McKay, vinca soltanto per il miglior trucco e acconciatura.
Traendo le conclusioni, il premio maggiore a un’opera che parla di integrazione razziale (Green Book), gli Oscar a Spike Lee, all’interprete Regina King come miglior attrice non protagonista per Se la strada potesse parlare – tratto dal libro di James Baldwin, scrittore afroamericano omosessuale, giustamente ricordato dalla stessa King nel corso del suo ringraziamento –, quello come miglior film di animazione a Spiderman – Un nuovo universo – nel quale è coinvolta anche l’italiana Sara Pichelli come disegnatrice – versione di colore del noto supereroe, nonché i tre Oscar – scenografia, costumi e colonna sonora – a Black Panther, il cine-comic sul primo supereroe africano della storia, sono tutti segnali di un’evoluzione dell’Academy, la cui quota dei membri di colore è passata quest’anno dall’8% al 16%, che, dopo le accuse so white di qualche anno fa, si apre sempre più al riconoscimento degli afroamericani che lavorano nel cinema. Forse mai una cerimonia è stata così black, considerando la notevole cifra di artisti neri premiati – 17 in tutto –, tra cui molte donne, in ossequio anche al movimento #MeToo che ha spopolato già nell’edizione dello scorso anno. Ecumenica ed equilibrata, questa serata, per la prima volta dal 1989 senza un conduttore, regala pochi sussulti e sorprese, in favore di un prevedibile copione attento a non scontentare proprio nessuno, o quasi, soprattutto dopo le molte polemiche che l’hanno preceduta. Appuntamento al 2020, sperando in un’edizione più inaspettata e, perché no, maggiormente disturbante.
Di seguito l’elenco di tutti i vincitori:
Miglior film: Green Book
Regia: Alfonso Cuarón per Roma
Attrice protagonista: Olivia Colman per La favorita
Attore protagonista: Rami Malek per Bohemian Rhapsody
Attore non protagonista: Mahershala Ali per Green Book
Attrice non protagonista: Regina King per Se la strada potesse parlare
Sceneggiatura originale: Green Book – Nick Vallelonga e Peter Farrelly
Sceneggiatura non originale: BlacKkKlansman – Charlie Watchel, David Rabinowitz, Kevin Willmott e Spike Lee
Film straniero: Roma (Messico)
Film d’animazione: Spider-Man: Un nuovo universo
Montaggio: Bohemian Rhapsody
Scenografia: Black Panther
Fotografia: Roma
Costumi: Black Panther
Trucco e acconciature: Vice
Effetti speciali: First Man – Il Primo Uomo
Sonoro: Bohemian Rhapsody
Montaggio sonoro: Bohemian Rhapsody
Colonna sonora originale: Black Panther
Canzone: Shallow in A Star is Born
Documentario: Free Solo
Cortometraggio documentario: Period. End of sentence
Cortometraggio: Skin
Cortometraggio d’animazione: Bao