La pratica artistica di Jackson Pollock era sicuramente la più particolare tra quelle degli altri pittori generalmente etichettati come Espressionisti astratti. Pollock, infatti, rappresentava il pittore d’azione, così come lo ha definito Harold Rosenberg. Nella storia dell’arte, i casi in cui un artista ne ha rappresentato un altro al lavoro sono davvero rari e, con lo sviluppo dell’arte moderna, il sapere dove porre il lavoro dell’artista è diventato sempre più problematico.
André Breton, nel suo Primo manifesto del Surrealismo, scrisse: Si racconta che ogni giorno, al momento di andare a dormire, Saint-Pol-Roux facesse un tempo porre, sulla porta del suo castello di Camaret, un cartello su cui si poteva leggere: IL POETA LAVORA. Come spiega Rosalind Krauss nel suo Teoria e storia della fotografia, infatti, i Surrealisti non furono i primi a sentire il lavoro dell’artista come una risposta alla sua vita onirica o inconscia, piuttosto che contemplativa, ma furono i primi a insistere su questo punto, dando così origine a un’immagine dell’artista al lavoro come trascrittore più o meno meccanico di impulsi che sgorgano da un regno su cui ha poco controllo cosciente. Di conseguenza, la fiducia che avevano nell’automatismo andava semplificando quello che era il lavoro dell’artista, ma non l’atto di trascrizione.
Da questo dogma si preparò poi il terreno per l’Action Painting, considerato come una forma assolutamente spontanea di produzione artistica, ma anche gestuale, che rispondeva a un bisogno irreprimibile. Nel 1952 fu pubblicato un articolo di Harold Rosenberg che si riferiva alla generazione di nuovi pittori astratti americani, includendo il termine Action Painting, ma soffermandosi particolarmente sulla figura di Pollock, le cui opere stavano facendo nascere molto interesse nella stampa e nelle testate specializzate.
Un articolo particolarmente importante fu, poi, quello di Robert Goodnough, pubblicato nel 1951 con il titolo Pollock Paints a Picture. Per la prima volta, venne descritta l’azione fisica dell’artista, nel momento in cui applicava il suo metodo. Matasse di pittura liquida lanciate verso una grossa tela posta sul pavimento, gesti rapidi, quasi un ballo che non lasciava spazio a un intervento di analisi o riflessione. Nonostante le descrizioni attente del carattere atletico di Pollock, le parole di Goodnough erano sovrastate dalle fotografie di Hans Namuth, scattate l’anno precedente, che riprendevano l’artista proprio mentre dipingeva. Il cambiamento portato da Jackson Pollock, quindi, aveva preso vita attraverso le fotografie di Namuth, diventate una prova decisiva, una dimostrazione dell’Action Painting.
Il lavoro di Pollock, inoltre, attirò particolarmente l’attenzione del critico Clement Greenberg. Come scrive ancora Rosalind Krauss, sono quadri appesi alla parete e che, in quanto opere d’arte autonome, il loro successo o il loro scacco doveva essere giudicato come quello di qualsiasi altra opera d’arte, cioè in base a criteri formali. Questi criteri, per Greenberg, ponevano Pollock in uno spazio pittorico usuale, ovvero quello della pittura modernista. In pratica, l’azione compiuta dal Pollock, le linee viscose e gocciolanti poste su larghe superfici di tela stabilivano una sintesi specifica tra la bidimensionalità materiale del quadro visto come oggetto e la pittura in veste di illusionismo spaziale, quale dato fenomenologico. Per Greenberg, dunque, il cambiamento portato da Pollock consisteva nel fatto che egli offriva allo spettatore una terza dimensione assolutamente pittorica, ottica, attraverso la quale era possibile guardare, ma anche viaggiare, però soltanto con gli occhi. Tutto ciò che scrisse Greenberg, tuttavia, richiedeva che non si tenesse conto delle fotografie di Namuth, ma nel corso degli anni scrittori e artisti si sono rifiutati di non dare importanza alle immagine considerandole elementi carichi di senso.
Purtroppo, è abitudine comune sfogliare le fotografie sulle riviste soltanto per il loro contenuto narrativo, decidendo a priori quello che è pertinente, tenendo da parte una quantità di informazioni che però sono contenute nell’ambito visivo del documento. E se le fotografie di Namuth fossero trattate in questo modo, si lascerebbe da parte il significato compositivo delle angolature, delle inquadrature, dei tempi di esposizione, della stampa, concentrando poi l’attenzione sul profilo di Pollock. In queste immagini, l’artista è come schiacciato tra due grandi tele, alcune a parete, altre poste a terra, dove la continuità dei grovigli di linee forma un motivo attivo e invadente che si ripete nelle sgocciolature e nelle macchie che appaiono sul pavimento dello studio, scrive la Krauss. Attraverso la fotografia, dunque, come afferma Jean Clay, è possibile ricreare lo spazio dell’all over: qui la figura umana, che può anche esistervi appena, e il suo rapporto con la gravità diventano ambigui. Vi è una concentrazione di superfici piane, una sorta di collage di piani raccolti che deve tutto all’effetto ottico della bidimensionalità del campo fotografico.
Clay ha scritto Hans Namuth, critique d’art, articolo nel quale sviluppa la tesi secondo cui le fotografie di Namuth sono state fraintese. Nella lettura delle immagini scattate a Pollock, inoltre, si riferisce ai quadri e alle litografie di Vuillard dove vi è un susseguirsi di motivi di carte da parati in cui l’effetto ottico ne raddoppia il riflesso, spezzando la coerenza geometrica della stanza. Secondo proprio il modello di Vuillard, Clay vede i brani di motivi nelle fotografie di Namuth come distaccantesi per mimare la bidimensionalità fotografica. Aporia che si rafforza (già in Vuillard) con la similitudine degli elementi discreti (macchie, grovigli, gocciolature) che ricoprono i priani figurati. In entrambi i casi – Vuillard, Bamuth – l’istanza materiale originaria fa ritorno, ma trasformata e spostata attraverso la mediazione di un lavoro di finzione.
Grazie al giudizio di Clay è possibile vedere le fotografie quali opere indipendenti, come istanza materiale originaria, ma anche che le immagini di Namuth sono letture critiche della pittura di Pollock che, attraverso la macchina fotografica, ricreano il campo antifigurale, palpitante e disteso, delle tele maculate. La fotografia di Namuth non vuole essere quindi un semplice reportage, ma è in tutto e per tutto una sua interpretazione di quel lavoro. Le immagini che ha scattato di Pollock, inoltre, testimoniano che l’artista lavorava per terra; infatti gli scatti mostrano spesso l’angolo di visuale che aveva lo stesso pittore. Il fotografare Pollock dall’alto è, dunque, il punto di vista più significativo di tutte le fotografie di questa serie. La macchina fotografica acquisisce così un punto di vista diverso da quello dello spettatore orientato a partire dal pavimento, spingendo quindi la Krauss a catalogare Namuth nella tradizione di fotografia aerea.
La veduta ad area era naturale per Pollock, da sempre inserita nel suo procedimento, con la conseguenza di una frattura che si crea tra il dipingere il quadro per terra e guardarlo poi appeso a una parete. Rosalind Krauss scrive ancora che l’impatto immediato dei grandi dipinti di Pollock è certamente irresistibile, ma in realtà esige anche un’interpretazione o una lettura di tutti i dilemmi pittorici che la sua arte riassume nello stesso tempo in cui tenta di trascenderli. È in questo attacco all’idea di immediatezza che esiste un parallelo da evidenziare tra i procedimenti di Namuth e quelli di Pollock: anche nelle mani di Namuth la questione dell’immediatezza provoca una decostruzione visiva, ma attraverso la fotografia opera nel tessuto stesso del reale.