Una mano che scava tre solchi nel legno e l’invocazione alla triplice dea, archetipo femminile antichissimo che troverà nella greco-latina Ecate una sua compiutezza: così inizia Il primo re, film fondativo non solo perché parla della fondazione della città eterna, ma anche auspicabilmente di un cinema italiano tutto da creare, che esuli dalle gabbie di commedie tanto mediocri quanto innocue e dai drammi di ambientazione medio-alto borghese, provando coraggiosamente – e riuscendoci appieno – a farci vedere com’è un survival-action-storico basato su una mitologia tutta nostra. La pellicola, però, non è riducibile solo a questo ed è illuminante, in tal senso, la citazione di Somerset Maugham che apre il film, sullo statuto di inaccessibilità della divinità in quanto tale. Matteo Rovere, sia regista che co-produttore, costruisce un’opera che trasuda senso del sacro da ogni poro e che mette a confronto due personaggi, Romolo (Alessio Lapice), fermo nella convinzione che l’esistente sia permeato di forze invisibili che influenzano gli uomini, e Remo (Alessandro Borghi), convinto della padronanza del proprio destino e dell’inesistenza degli dei. Su questa dicotomia, Il primo re trova la chiave narrativa per rendere credibile e avvincente la storia dei due leggendari fratelli nutriti dalla lupa.
Anche se qui di lupe non ce ne sono, l’aura mitologica della vicenda è intatta, anzi rinvigorita da una messa in scena che ci riconnette direttamente con quell’ancestrale cuore di tenebra da cui tutti proveniamo e che è alla base delle nostre civiltà. Sebbene la vicenda si collochi in una data precisa, il 753 a.C., anno della fondazione di Roma, il mondo che Rovere mostra si pone in un’epoca quasi atemporale, quindi mitica, che si trova più dalle parti di Conan il barbaro (1981), guerriero cimmero della cosiddetta epoca Hyboriana – a metà tra la caduta di Atlantide, Valusia e Lemuria e la nascita delle civiltà mediterranee – che non dalle parti di un film storico. I cavalieri di Alba, che razziano e schiavizzano, ricordano non poco le minacciose cavalcate dei guerrieri del temibile Thulsa Doom nel film di John Milius sull’eroe nato dalla penna di Robert E. Howard. Non si fraintenda però: è palpabile, alla base del film di Rovere, l’enorme lavoro di ricerca e documentazione – a opera dello stesso regista in collaborazione con gli sceneggiatori Filippo Gravino e Francesca Manieri – che dona autenticità alla vicenda, a cominciare dall’utilizzo di un latino arcaico per i dialoghi, scelta molto coerente al tono dell’operazione – che richiama ovviamente i gibsoniani La passione (2004) e il più affine Apocalypto (2007) –, ai costumi molto semplici e alle armi rudimentali – tipiche di un’epoca non più primitiva ma neanche progredita – fino alla ricostruzione di un’ambientazione selvaggia che palpita di forze divine dalle quali gli individui sono influenzati.
Il film non mette banalmente in scena presenze soprannaturali, ma ne suggerisce la presenza nel modo in cui le persone vivono l’ambiente che le circonda. Nel descrivere tale mondo, con inevitabile crudezza, ci restituisce efficacemente quel senso del sacro che caratterizzava la vita quotidiana delle civiltà precedenti alla nostra e ci mostra come funziona la vita sociale nel momento in cui un dio si manifesta tramite l’elemento del fuoco, che va preservato e trasportato con cura – come succedeva per esempio ne La guerra del fuoco (1981) di Jean-Jacques Annaud – dal pontifex, colui che funge da ponte tra gli uomini e la divinità. In questo caso la figura di collegamento è una donna: un po’ sacerdotessa, un po’ strega, vestale ante litteram custode del fuoco, è anche guaritrice – cura le ferite di Romolo con delle erbe –, inoltre legge il futuro nelle viscere degli animali, ovvero conosce la scienza degli aruspici. La donna è portatrice di un sapere atavico che fonde una totale comunione con la natura, con la manipolazione di forze invisibili dalle quali si lascia possedere per cadere in trance e avere conoscenza. Sebbene si trovi in un contesto maschile barbaro, nessuno osa violarla e l’unico che ci prova viene fermato dalle sue maledizioni, pronunciate ovviamente in un latino arcaico molto suggestivo. Non importa se la sciamana – perché di questo si tratta – possegga o meno un potere reale, ma l’effetto performante che le sue parole hanno sulla realtà e sulla psiche di colui che le ascolta: l’individuo si sente bloccato, colto appunto da una maledizione, perché in quel contesto l’archetipo del mago ha una sua validità psichica. Ciò che è reale per la psiche, junghianamente, diventa reale di fatto. Tramite questa chiave il film rappresenta efficacemente un mondo permeato di forze archetipiche che hanno un’influenza reale sulle persone.
La qualità mitopoietica de Il primo re non è data solo dal contenuto della storia narrata, bensì anche da un linguaggio filmico molto consapevole e maturo che, tramite una messa in scena dominata da colori terrigni, fango, acqua e fuoco, riesce a restituire con vividezza estrema quel carattere cupo, archetipico e ancestrale, di cui si diceva prima, che costituisce l’architettura più efficace per sorreggere una vicenda situata a metà tra storia e leggenda. E lo fa affondando i protagonisti nel fango di location laziali che, anche se non hanno il fascino della wilderness americana di Revenant (2015) o dei paesaggi nordici di Valhalla rising (2009) – entrambi riferimenti filmici dichiarati per Rovere –, riescono comunque a sferzare lo spettatore con la violenza di una natura selvaggia non ancora addomesticata, ma protagonista e partecipe delle vicende umane. A combattere con questa (e non solo con essa) abbiamo due interpreti eccezionali – va ricordato però l’intero cast tra cui spicca anche il Massimiliano Rossi di Indivisibili – che hanno sostenuto prove fisiche davvero estreme per calarsi nei panni dei due celebri fratelli: Alessandro Borghi – non nuovo a notevoli trasformazioni con il film Sulla mia pelle su Stefano Cucchi – e Alessio Lapice, entrambi intensi e bravissimi a trasmettere un amore fraterno viscerale, basato sulla protezione l’uno dell’altro, a tutti i costi. Un amore che porta a scelte estreme, con conseguenze drammatiche.
Infine, non è un caso che la cupa e splendida fotografia del film (si confrontino i fotogrammi qui riportati), curata da Daniele Ciprì, richiami in qualche modo i chiaroscuri di Vittorio Storaro delle scene rituali/sacrificali di Apocalypse now (1979): entrambi i film hanno il colore e la qualità materica del cuore di tenebra conradiano insito nell’animo umano e dal quale le nostre civiltà credono di essersi ipocritamente emancipate. È in questo che risiede il carattere apocalittico del film di Rovere. Le barbarie delle tribù proto-laziali non sono tanto lontane dalle barbarie della tribù cambogiana del colonnello Kurtz, accusato dall’alto comando americano di praticare metodi insani. Metodi che sono gli stessi praticati dai personaggi del film qui analizzato ma che, mentre nell’apocalisse coppoliana servono a rispecchiare e mantenere un establishment già esistente, ne Il primo re contribuiscono alla fondazione di una civiltà. Non è un caso che le nostra, quella italica, così come altre, sia nata leggendariamente da un atto di violenza, in questo caso fratricida.