Chi si aspettava l’ennesimo cine-comic è meglio che cambi aria. E per fortuna. Shyamalan confeziona un nuovo thriller soprannaturale attingendo a quell’universo che è andato cesellando pian piano con i precedenti Unbreakable (2000) e Split (2016), ma spiazzando con un film che, per ritmo, temi e soluzioni visive, è l’esatto antidoto alla formula dei sequel. Anzi, secondo il gergo fumettistico, Glass sarebbe un crossover, ovvero una storia che, inserendosi nelle continuità di due mondi narrativi differenti, li mescola e li implica l’uno con l’altro. Ma andiamo con ordine e vediamo prima cos’è successo finora.
Nel 2000, Shyamalan firma quel gioiellino di Unbreakable, originale riflessione meta-filmica sui supereroi dei fumetti – intesi come esagerazione di fatti reali tramandati da migliaia di anni prima tramite la mitologia, poi per mezzo della settima arte – in tempi decisamente non sospetti: l’orda di cine-comic che ha invaso gli schermi cinematografici è ancora di là da venire; infatti proprio quell’anno uscirà il primo X-men. Ciò che succede in Unbreakable è presto detto: David Dunn (interpretato da un dimesso Bruce Willis) scopre di avere poteri particolari: non può ammalarsi o farsi del male, ha una forza sovrumana e riesce a vedere nella mente delle persone che hanno commesso azione malvagie semplicemente toccandole. Unico punto debole, la sua kryptonite, è l’acqua. Elijah Price (interpretato da un convincente Samuel Jackson), detto l’Uomo di Vetro – Glass – per via di una malformazione che gli rende le ossa frantumabili a ogni minimo trauma, fa da mentore a David e lo aiuta a scoprire maieuticamente i propri poteri e la propria identità. Purtroppo, però, non è solo un mentore appassionato di fumetti, ma un vero e proprio genio del male, proverbiale acerrimo nemico, responsabile di sanguinosi attentati perpetrati per scoprire persone speciali come Dunn.
Passano sedici anni e nel 2016 esce Split, variazione sul tema del serial killer psicopatico con interessanti implicazioni sulla definizione di identità, intesa come minuscola particella sperduta nel mare dell’inconscio: Kevin Wendell Crumb (interpretato dall’istrionico James McAvoy), individuo dissociato dalla personalità multipla (ne ha ben ventitré), rapisce tre adolescenti. Soltanto una, Casey, che entrerà in empatia con il Mostro, si salverà. Nel corso della vicenda una delle personalità di Kevin, la Bestia, prende il sopravvento e, stimolando opportunamente l’organismo tramite secrezioni prodotte dal cervello umano, donerà a Kevin una forza sovrumana. Questi fugge e si farà chiamare L’Orda. Alla fine del film, con un twist – colpo di scena – tipico di Shyamalan, scopriamo che Crumb abita lo stesso universo narrativo di David Dunn e quindi di Elijah/Mr. Glass. Avevamo così assistito senza saperlo, a quella che in gergo viene chiamata origin story di un villain, nel caso specifico di un cattivo chiamato appunto L’Orda. È bastato questo a scatenare un’attesa febbrile – oggi si impone il termine hype – nei fan che non vedevano l’ora di scoprire come Shyamalan avrebbe esplorato le potenzialità dei due universi, finalmente in dialogo l’uno con l’altro.
La dottoressa Staple (Sarah Paulson) riunisce nell’istituto di psichiatria criminale Raven Hill Memorial – luogo tipico dei fumetti come l’Arkham Asylum di Batman – i tre personaggi eccezionali dei due film precedenti e cerca di persuaderli del fatto che i loro poteri siano soltanto convinzioni patologiche e non reali capacità. Volendola leggere in altro modo, le istituzioni, nella figura della Staple, cercano di soffocare ciò che è la vera natura di questi individui per poterli conformare alla massa. Trovando dei metodi pratici per contenerli – l’acqua per David, luci stroboscopiche che inibiscono le personalità violente di Kevin e pesanti sedativi per Elijah –, la dottoressa usa le ragioni del riduzionismo materialistico per dimostrare che i poteri dei tre non esistono e che i fatti di cui sono stati protagonisti in passato possono essere spiegati con banali motivazioni tecniche. Ovviamente le sue azioni porteranno a delle drammatiche conseguenze. Non manca neanche il gustoso twist finale presente in ogni film di Shyamalan che si rispetti dal Sesto senso in poi, e che ribalta il punto di vista su molte cose analizzate fino a quel momento.
Nel corso di un dialogo con la Collezione dei personaggi (secondari) – definizione dello stesso Mr. Glass –, ovvero Joseph il figlio di David, la madre di Elijah e Casey, la ragazza scampata alla Bestia, la dottoressa Staple fa notare come i tre protagonisti eccezionali ricadano in alcuni cliché tipici dei fumetti e della narrativa in generale: ovvero il buono, l’anarchico fuori controllo e il genio del male. Questa e altre riflessioni meta-filmiche, ben diluite nell’arco della storia, fungono da contrappunto ironico alla vicenda a sottolinearne la natura di film-saggio sulla narrazione fumettistica. Come si diceva all’inizio, il conflagrare dei due universi di Unbreakable e Split non avviene tra botti e scontri fantasmagorici, tipici dei cine-comic. È di Shyamalan che stiamo parlando, specialista in thriller (spesso) sovrannaturali dall’andamento enigmatico e dolente, che rifugge la facile spettacolarizzazione, il montaggio ipercinetico e la frammentazione dello spazio filmico in molteplici punti di vista che ipnotizzano e confondono chi assiste alla proiezione. Il regista lavora all’interno dell’inquadratura, sul dettaglio, sulle sfumature. A livello narrativo invece distrae lo spettatore con deragliamenti intriganti, lo fa guardare da un’altra parte e poi – un po’ come nel bellissimo The Prestige di Nolan –, quando questi meno se lo aspetta, affonda e tocca. Cosa? Le corde interiori della paura dell’ignoto e dell’angoscia derivata dalla ricerca della propria identità, e non lo fa quasi mai in maniera banale, come in Glass.
Tutto ciò si riflette anche nell’uso del linguaggio cinematografico. Basta una scena per capire come Shyamalan lavori bene in sottrazione. C’è un momento in cui i tre personaggi secondari si ritrovano fuori dell’istituto psichiatrico a commentare alcuni avvenimenti: non sentiamo le – inutili – parole ma vediamo i tre dall’alto, in una grande inquadratura totale, dall’interno dell’istituto, attraverso un finestrone isolante che ci impedisce di ascoltarne i discorsi: immaginiamo facilmente cosa si dicono ma in quel momento è più importante la loro posizione nello spazio dell’inquadratura. In un altro momento, il volto disperato di David, recluso e impotente, si riflette distorto in un pannello metallico all’interno della stessa ripresa, a sottolineare la natura doppia di ciò che vediamo per tutto il film. Oppure ancora l’uso essenziale ed efficace della focale lunga – il teleobiettivo – che ci permette di partecipare alla reazione di Dunn quando vede per un attimo, rinchiuso nella stanza di fronte alla sua, la Bestia Kevin Crumb: gli sguardi si incrociano come se non ci fosse più distanza tra loro e i destini si avvicinano, grazie allo schiacciamento della prospettiva tipica del teleobiettivo.
L’uso dei colori, come in tutti i film di Shyamalan, è significativo, anzi fondante. Ognuno dei tre protagonisti è definito da un colore: nei vestiti, nelle luci che li illuminano, nelle scenografie degli ambienti che li circondano, come nella scena (che vediamo in foto) in cui i tre protagonisti si trovano tutti di fronte alla Staple per una seduta. L’intero ambiente è viola, come pure il pullover della dottoressa, mentre Kevin è in giallo – ocra per la precisione – e David in verde. Il viola è il colore di Elijah perché, come dice Shyamalan in un’intervista, esso è associato alla nobiltà, qualità maestosa, Elijah vede se stesso come importante, come il protagonista di un fumetto. Inoltre, è anche il colore della consapevolezza e della trasformazione della coscienza secondo molte dottrine iniziatiche. Il verde è il colore di David perché è fisiologicamente associato alle proprietà positive della vita. L’ocra per la Bestia perché, sempre per Shyamalan, è un colore associato alle cerimonie religiose, hindu e buddiste. Ricorda l’abito di un monaco. Io vedo la Bestia come un evangelista. In aggiunta, il giallo è il colore della citrinitas, ultimo stadio – dopo la nera Nigredo, la bianca Albedo e la rossa Rubedo – delle trasmutazioni della coscienza secondo le tradizioni alchemiche medievali e rinascimentali. L’uso esoterico che Shyamalan fa dei colori ricorda molto da vicino l’utilizzo altrettanto misterico dei colori di David Lynch, soprattutto in Fuoco cammina con me e in tutta la serie di Twin Peaks, anzi, a pensarci bene, in gran parte dei suoi film dove sono spesso in azione forze soprannaturali legate a certi colori o a certe qualità degli ambienti. I tre protagonisti di Glass si trovano così ad affrontare un percorso doloroso ma catartico, di riconoscimento di sé, e forse anche del sé inteso come chimera spirituale inseguita ma raramente raggiunta da coloro che praticano discipline trascendentali. Non a caso, il dolore diventa per la Bestia criterio di discernimento per stabilire chi si salverà perché ha già sofferto e chi, invece, merita di passare attraverso la sofferenza come momento purificatorio, quindi, di nuovo catartico.
Invece di rifarsi a franchise esistenti e a universi condivisi, Shyamalan costruisce una sua mitologia e un suo mondo narrativo che con questo terzo film porta a compimento definitivo, spingendo ulteriormente la sua originale riflessione sui cine-comic in direzioni inedite e assolutamente opposte ai cine-fumetti che invadono sempre più gli schermi e il nostro immaginario. Glass riprende così i frammenti spezzati dei due film precedenti e li reimmette in una nuova narrazione che chiude il cerchio, portando le implicazioni filosofiche di Unbreakable e Split a un livello più alto che va a toccare ciò che si nasconde in ognuno di noi come potenza da trasformare in atto se solo dessimo ascolto al nostro vero io.