C’è una gara in questi giorni, si tratta di stabilire chi ce l’ha più grosso. Il quoziente intellettivo, si intende. Una sfida da cui pare che l’uomo bianco esca vincitore. A difenderlo non è un occidentale qualunque, bensì James Watson, Premio Nobel per la Medicina per aver scoperto insieme a Francis Crick, Maurice Wilkins e Rosalind Franklin la struttura a doppia elica del DNA. Era il 1953. Per tale motivo, il grande scienziato rischia oggi, all’età di novant’anni, di essere ricordato come razzista.
Ma perché esporsi in questo modo? Perché lui è James l’onesto, come ama definirsi, e per fedeltà alla scienza, come conferma anche il figlio, pronto a difenderlo contro la minacciata revoca del prestigioso riconoscimento. La notizia è in realtà vecchia di qualche anno, già diffusa nel 2007, ma allora la bocca dei media era meno affilata e il mondo meno a contatto diretto. Stavolta le affermazioni di Watson hanno prodotto un bivio letale: condannarlo o assolverlo, dunque scegliere tra il politicamente corretto e la libertà di ricerca, anche se questa libertà vuol dire scatenare chi non aspettava altro per gridare di nuovo alla bestia davanti a un uomo di colore differente.
Non viviamo in un mondo di filosofi. La paura del diverso è solo sotterrata e i cumuli di terreno vanno assottigliandosi con il tempo che passa. Ma proviamo ad analizzare criticamente la teoria di Watson. Certo, non siamo scienziati eppure sappiamo che la parola di uno solo non basta, anche se Premio Nobel. Attualmente non c’è nessuna prova attendibile che conferma quanto detto da James l’onesto, però proviamo ad assecondarlo e ammettiamo per un attimo che abbia ragione: ci sono differenze iscritte nel DNA tra i ceppi etnici per cui i bianchi partirebbero da una posizione di vantaggio intellettuale. Ecco, quest’affermazione, da sola, non ha significato. Perché qualsiasi potenzialità, se non coltivata, resta solo in potenza.
Anche la muscolatura degli uomini di colore può essere in potenza più sviluppata della nostra, eppure troveremo occidentali più muscolosi e uomini di colore di gran lunga più istruiti e/o – che non è la stessa cosa – intelligenti. D’altra parte, l’evidenza dice che qui, nell’Occidente dei ricchi, non siamo proprio circondati da cervelloni, volendo guardare già solo al nostro Paese e a chi per tanto tempo ne ha portato la bandiera. Se bastasse il Q.I. iscritto nel DNA a fare qualcuno intelligente, saggio, aperto e disposto alla riflessione, tutto ciò apparirebbe palese a qualsiasi uomo bianco. E, in virtù di questo stesso acume, sarebbe colui dal viso pallido a portare la bandiera dell’umanità, di per sé molteplice e colma di differenze che ne fanno la vera ricchezza. La storia pare invece aver dimostrato che a lungo e senza sosta l’uomo bianco ha detenuto il primato della barbarie. E, anziché tendere la mano e aprirsi alla comprensione, ha sommerso il suo cuore di paura, temendo la forza fisica e numerica altrui, e quello dell’uomo nero, che ne teme la ricchezza e le becere ambizioni di dominio.
Un’affermazione come quella di Watson non dovrebbe destare timore, ma sospetto. Non dobbiamo negare la libertà di parola o di ricerca, ma stimolarla ricercando a nostra volta. Rispondere con le revoche è repressione, anche se per una giusta causa. La vera superiorità sta nell’accettazione e nel dialogo, nella comprensione e nell’apertura che non esclude, ma contrattacca e semmai ammonisce. In fondo, la ricerca dello scienziato è fortemente limitata: se veramente c’è bisogno di fare una statistica di caratteristiche e potenzialità tra i ceppi etnici, bisognerebbe studiare i DNA di tutti i ceppi del mondo. Ma è davvero tanto rilevante?
Per come è stato posto da Watson, in maniera così superficiale e lacunosa, il problema non è né scientifico né umano, ma di curiosità. E le curiosità non tolgono e non aggiungono niente. Quello che rimane è sempre l’essere umano, con tutte le splendide e terribili peculiarità che si porta dietro e che non definiscono fino in fondo nessuno. È il contesto che forma, è l’uomo che sceglie, qualsiasi cosa la natura abbia deciso prima di lui.