Chiusa per bomba la pizzeria Sorbillo: una scritta blu su un foglio bianco, il volto scuro. La mattina di mercoledì 16 gennaio, a Napoli, si apre così, con una notizia che rimbalza sui social come nelle strade. Nel centro storico c’è grosso fermento e stavolta non per la presenza massiccia dei visitatori vogliosi di scoprire le bellezze della città. Il viavai è più inarrestabile del solito, il vociare che anima la zona piuttosto timido, quasi irriconoscibile. Forze dell’ordine, telecamere, curiosi, qualche politico: tutti si fermano in via dei Tribunali 32, nella notte è successo qualcosa di grosso.
A fare rumore è l’attentato a uno dei luoghi simbolo del capoluogo campano, tra i più ambiti dai turisti e i più amati dai napoletani, è la casa della pizza, un’eccellenza tutta partenopea che si è imposta in Italia e nel mondo, la sede storica di un cognome che si è fatto marchio da ben tre generazioni, nonostante un incendio appiccato – ancora non si sa da chi e perché – già cinque anni fa. Esploso davanti all’ingresso, l’ordigno ha provocato danni da alcune migliaia di euro, risparmiando la vita del custode notturno del locale solo perché fortunatamente protetto dalle porte blindate che serrano la pizzeria. Scontato dire che la tesi più accreditata quale possibile spiegazione a questo vile episodio sia il racket: «Non ho avuto richieste, hanno colpito un simbolo di legalità e rinascita: una bomba contro di me per avvertire tutti», sostiene Gino Sorbillo. «Credo sia in corso una guerra per nuovi equilibri tra clan, sembra una dimostrazione di forza. Abbiamo riempito Napoli con il nostro lavoro, il nostro talento, il turismo. Ci siamo adoperati attraverso rete e social per comunicare una città diversa, forse hanno voluto attaccare un simbolo di questa rinascita, questa bomba è un messaggio di intimidazione verso gli altri che hanno anche una minore capacità di rialzarsi rispetto a me. Non c’è stato alcun segnale, avrei denunciato subito, collaboro con le forze dell’ordine e sono anche un presidio per il territorio. Lavoro lì da 24 anni». Di colpo, in città si torna a parlare di quella montagna di merda nascosta sotto il tappeto.
Cittadini, istituzioni, stampa si scandalizzano e prendono posizione, i #jesuisSorbillo si sprecano così come le foto delle delizie prodotte tra quelle quattro mura momentaneamente sotto scacco. È strano, improvvisamente, tutti ricordano che a Napoli la criminalità organizzata non ha mai smesso di comandare. Se la prendono con il Sindaco, forse lo credono Batman, un supereroe che tutto può, poi con i camorristi, la fetta malandata della città nella quale non riconoscersi, infine, tra i poteva succedere ovunque e i fujtevenne di eduardiana memoria, si rivolgono a quel Salvini troppo impegnato, nel quotidiano cambio di divisa, a contare i giorni che mancano affinché, stando ai suoi calcoli, la malavita in Italia venga sconfitta in via definitiva. Intanto, ignorano che – concretamente – la mafia, qualunque sia poi la sua denominazione locale, da anni non è più non solo nei programmi dei governi che si succedono, ma anche dei cittadini abituati a pesare i propri gesti secondo regole, ritmi e tempi dettati non dalla legge, quanto dai capuzzielli di turno a cui tutto è concesso.
Basti pensare che, soltanto nell’ultimo mese, ad Afragola, in provincia di Napoli, sono state fatte esplodere ben otto bombe indirizzate ad altrettanti negozianti e imprenditori meno forti mediaticamente e più spaventati dalla loro solitudine, troppe per non fare rumore alcuno, abbastanza da non dover aspettare lo scoppio della saracinesca di Sorbillo per accorgersi che qualcosa dal sottosuolo si sta muovendo per venire fuori, che il tappeto non è lungo a sufficienza per coprire tutto il lerciume su cui si continuano a inaugurare B&B. Il puzzo a cui ci siamo assuefatti, al punto da non riconoscerlo, se lo sta portando un nuovo vento che spira e appesta questi territori atavicamente orfani di uno Stato che latita e torna a trovarli solo quando si tratta di estorcere voti, tasse e ricchezze.
A breve, lo sappiamo già tutti, il tamtam social si fermerà, le passerelle – come quella che si appresta a fare il Vicepremier leader del Carroccio il prossimo venerdì e non in zona Vasto – si esauriranno, i selfie sul luogo dell’attentato daranno spazio a nuovi hashtag di tendenza e nulla nella città partenopea come nella sua provincia sarà minimamente cambiato. Le pizze verranno sfornate nuovamente e ancora più saporite, la diatriba tra Sorbillo e Michele non si risolverà, Starita resterà alla finestra per scippare loro la corona. Le stese non si faranno attendere e il sangue di altri morti, di cui ci interesserà poco perché finché si ammazzano tra di loro va sempre bene, bagnerà le strade di un turismo sfrenato di cui bearsi in risposta ai soprusi costantemente patiti o alle promesse mancate. Gli indignati di oggi, i Peppino Impastato che invadono i social, torneranno a lasciare l’auto al parcheggiatore abusivo, gli faranno prendere quel caffè che nulla ha a che vedere con l’arte di arrangiarsi, pagheranno il pizzo per non rischiare di chiudere la propria attività, il frutto di un sacrificio a volte persino troppo grande. Prenderanno un tappeto più nuovo perché nessuno li avrà aiutati a rimuovere lo sporco precedente.
Anche la camorrità non si arrenderà, un malcostume che non è delinquenza ma attitudine all’arroganza, alla sopraffazione, al disinteresse del bene comune e del vivere civile, il rischioso tentativo di non confondersi tra la folla credendosi in grado di alzare la testa. La Napoli bene, intanto, continuerà indisturbata la sua quotidianità, quella perbene, invece, si sentirà soffocare dall’insopportabile olezzo che è costretta a respirare. Molti, pur di sopravvivere, chiuderanno le tende per non sapere, segno dell’ennesima sconfitta non di Partenope, ma dell’Italia intera, di un’informazione sensazionalistica che ha fatto del capoluogo campano un titolo, un telefilm, uno spettacolo circense che guarda all’esibizione e non alle prove, all’insito sfruttamento. Nel frattempo, la politica conterà ancora i giorni, rilanciando, come fosse un’asta, il numero di forze dell’ordine da impiegare in queste terre, di uomini e donne in divisa da lasciare alla mercé di criminali che poi meno spesso di quanto si pensi finiscono in carcere. A lottare, invece, resteranno i presidi cittadini, le associazioni, i singoli individui, i soli, veri paladini di una legalità raramente declinata sul serio come antimafia. Pretenderli convinti che qualcosa muterà, tuttavia, non sarà poi così semplice.