Una chiesa di origine paleocristiana nel cuore della Napoli storica, a pochi passi da San Gregorio Armeno, apparentemente dimenticata, poi riscoperta e infine restaurata: la Basilica di Santa Maria Maggiore alla Pietrasanta.
Una miscellanea di opere nascoste – poiché appartenenti a istituzioni, fondazioni bancarie o a collezioni private e quindi non abitanti musei o altri spazi espositivi visitabili – riportate allo scoperto, riunite ed esposte.
La città di Napoli, la scoperta dei suoi luoghi fisici e delle opere dei suoi artisti, in più il tratto comune dell’essere realtà “ritrovate”. Questi i leitmotiv che mettono in relazione contenuto e contenitore della mostra I tesori nascosti. Tino di Camaino, Caravaggio, Gemito, inaugurata il 6 dicembre 2016 e ospite della basilica partenopea fino al 28 maggio 2017.
A cura di Vittorio Sgarbi, la mostra contiene più di cento opere, tra scultura e pittura, che coprono cronologicamente l’intervallo che va dalla metà del XIII fino al XX secolo e geograficamente l’intero territorio italiano, spaziando tra opere di soggetto sacro e profano con tele di Tiziano Vecellio, Guido Reni, Jusepe de Ribera, Giovanni Boldini, Giacomo Balla e Giorgio De Chirico, tra gli altri.
L’obiettivo dell’esposizione sembra essere quello di proporre un riassunto – nell’accezione più positiva e meno riduttiva del termine – delle maggiori linee identificative ed evolutive dell’arte italiana in termini di stile compositivo e di tematiche rappresentate. Questa volontà è già espressa nel sottotitolo della mostra che riporta tre nomi emblematici rispettivamente per il XIII, il XVII e il XIX secolo, periodi tra quelli su cui la mostra si focalizza maggiormente.
La guida – consultabile sull’applicazione ufficiale – è costituita sia da un approfondimento scritto per ogni opera che da un audio-guida in cui Sgarbi fornisce spiegazioni e commenti, accompagnando la visita.
E proprio le parole pronunciate dal curatore, nel video introduttivo presente sull’app, ben riassumono la mostra e la sua peculiarità: “Un museo vero e proprio, con una varietà di opere che non sono legate a una storia predefinita ma a una storia che noi mettiamo in fila attraverso la proposta di queste opere nascoste.”
Aggirandosi concretamente tra i pannelli di stoffa rossa che dividono lo spazio interno della basilica costituendo il percorso espositivo, infatti, si avverte che esso è permeato da una chiara volontà di esemplificazione e di spiegazione di ciascun momento storico-artistico trattato attraverso l’accurata selezione di specifiche opere-campione.
Ciò si rispecchia nell’ordine espositivo delle stesse, che resta sostanzialmente cronologico: due pròtome femminili all’ingresso – al tempo stesso vedette e uscieri – accolgono i visitatori. Ci si immerge poi nei corridoi dedicati al Trecento e al Quattrocento dove il candore marmoreo del rilievo del “San Giovanni” di Tino di Camaino risalta al fianco di scene, perlopiù sacre, dai colori caldi e le figure tra il giottesco e il leonardesco.
Gradualmente ci si lascia trasportare fino alle prime tele di argomento profano, non potendo però evitare di essere incuriositi dall’espressione fiera del comandante Gabriele Tadino nel suo ritratto firmato da Tiziano, magnetizzati per un po’ dai colori pieni e luminosi della “Santa Margherita di Antiochia” di Pomarancio e catturati da quelli intensi e brillanti che vestono i protagonisti della tela di Matteo Ponzone “Tarquinio e Lucrezia”, riproposizione in ambientazione seicentesca dell’episodio narrato da Ovidio.
Muovendosi fisicamente nella transizione tra Rinascimento, Manierismo e Barocco, si approda a un unico ambiente principale ed è proprio qui che la magia continua, amplificandosi: il rosso degli allestimenti, nella sua elegante uniformità, ci fa sentire sul fondo di un forziere – richiamandone l’interno vellutato – e le opere riescono a continuare la metafora perfettamente, stagliandosi sulle pareti come singole, cesellate pietre preziose. Ognuna con le proprie particolari sfaccettature, la propria tavolozza di toni e sfumature, la propria storia da raccontare, indistintamente, agli occhi di esperti, interessati e curiosi.
Proiettati in una poliedrica passeggiata visiva, ci si muove tra soggetti mitologici e letterari, allegorie – anche in forma scultorea – accanto a ritratti, vedute bucoliche e paesaggistiche proprie dell’Ottocento napoletano, piacevoli scorci e spaccati di vita quotidiana, fino ad arrivare al Novecento, con sorprese dal sapore metafisico, plastico e sperimentativo, proprie del non lontano “secolo breve”.
Nel medesimo ambiente, volgendosi però verso la zona absidale della basilica, un altro particolare allestimento delimitato da pannelli, come a creare una stanza a sé stante, custodisce, tra tele di Ribera e Battistello, la “Maddalena addolorata” di Caravaggio, uno studio preparatorio per il dipinto “La morte della Vergine”, conservato al Louvre. L’abitante della tela – in posizione privilegiata nella zona dell’altare maggiore – dà luogo a un piccolo, delizioso paradosso: si mostra a tutti senza svelare il proprio volto, che tiene nascosto, seduta china e impegnata a piangere la Vergine.
Al contempo questa volontà di sintesi, di cui è permeata l’esposizione, si adatta perfettamente alla finitezza del luogo di culto che, diversamente dalla maggioranza dei musei canonici, con i suoi confini relativamente ristretti elicita e rafforza la sensazione di trovarsi in un piccolo, grande – ma soprattutto variegato – scrigno.
Quasi un peccato che tali tesori debbano essere nuovamente “dispersi” nelle rispettive sedi “nascoste” dopo il notevole lavoro di ricerca che li ha raccolti e riportati – seppur temporaneamente – alla luce.