Diciamolo subito: questo nuovo Suspiria solo in seconda battuta può essere considerato il remake del capolavoro di Dario Argento. In realtà, l’operazione di Guadagnino è una grossa tessitura esoterica che lega insieme magia, occultismo, politica, storia rimossa, arte come ricerca interiore e alcune efferatezze tipiche dell’horror. Proprio per tale motivo, potrebbe scontentare sia i fan del genere duro e puro, sia i cultori del cinema autoriale o d’arte: esso si pone come un oggetto bizzarro e affascinante negli interstizi tra queste dimensioni filmiche, di certo difficilmente classificabile e perciò interessante. Nella stessa categoria ricadeva anche il destabilizzante Neon demon di Nicolas Winding Refn che, nel 2016, divise gli spettatori con un’opera che si poneva a metà tra la video-arte e l’horror cannibalico.
Superficialmente, la trama ricalca quella del cult di Dario Argento del 1977, trasferendo però la vicenda da Friburgo alla Berlino dello stesso anno, sconquassata dagli attentati terroristici della Banda Baader-Meinhof: una ragazza americana, Susie Bannon – interpretata da Dakota Johnson –, riesce a farsi accettare dalla scuola di danza moderna di Helena Markos e lì scopre che l’istituto non è altro che una copertura per una congrega di streghe dedite a rituali di magia nera e devote alla Mater Suspiriorum, sorta di entità demoniaca antichissima – le cui radici affondano nello gnosticismo proto-cristiano – e sorella delle altre due madri, Tenebrarum e Lacrimarum, a loro volta presenti nei sequel di Suspiria, sempre a opera di Argento, e cioè Inferno e La terza madre.
Se già il film originario illustrava un microcosmo matriarcale dominato dalla magia, nella nuova versione di Guadagnino – in collaborazione con lo sceneggiatore David Kajganich – la vicenda si spinge oltre nell’esplorazione della madre terribile, l’archetipo che fin dall’antichità incarna l’aspetto più feroce e castrante del femminile e che è possibile ritrovare nelle culture più disparate a ogni latitudine del pianeta. Basti pensare, solo per citarne alcune, alla figura dell’ebraica Lilith, alla babilonese Tiamat, alla greco/romana Ecate, piuttosto che alle persecutrici come le stryx romane, le gorgoni greche o alle seguaci della dea Diana, diventate poi Janare e streghe nella cultura cattolica. Il rapporto materno che si crea tra l’insegnante di danza Madame Blanc e Susie è molto viscerale, mentre il ripudio della madre naturale a favore di un’altra entità materna/matrigna (Mater Suspiriorum) che succhia le energie dei figli rientra nella liturgia delle streghe del film. In questo scenario si innestano la situazione politica tedesca della Berlino del 1977 ancora divisa dal Muro e martoriata da attentati terroristici – di stampo analogo alle nostre Brigate Rosse – nonché il senso di colpa del popolo teutonico legato alla tragedia nazista. Sicuramente troppo per un unico calderone filmico: infatti, se da un lato la metafora dell’incantesimo hitleriano che ha tenuto in scacco un’intera nazione così come quello della malia terroristica degli anni Settanta è fin troppo chiara, dall’altro alcuni aspetti del legame tra occultismo, magia e politica restano irrisolti. Il film sembra suggerire che ci sia un’oscura connessione tra le attività della congrega di streghe e gli eventi politici della Germania – anzi, si potrebbe pensare con gli eventi di tutto il mondo, se anche in altri Paesi esistessero congreghe simili –, ma tale possibilità viene lasciata un po’ in sospeso. Inoltre, la figura dell’anziano psicologo Jozef Klemperer, scampato ai rastrellamenti nazisti e morso dai sensi di colpa nei confronti della moglie scomparsa, sembrerebbe sintetizzare i rimorsi dell’intera nazione, in quanto testimone diretto dell’Olocausto nonché testimone forzato delle attività di stregoneria della scuola di danza. Anche questo tema, tuttavia, resta irrisolto, ma proprio tale irresolutezza sembra essere la cifra del film di Guadagnino, sicuramente imperfetto ma terribilmente affascinante.
La magia della pellicola passa attraverso la danza e qui entra in gioco forse l’essenza di Suspiria versione 2018 e anche il suo indissolubile legame con un altro film che è nelle sale in questi giorni e che apparentemente sembrerebbe molto lontano e, cioè, Capri-revolution di Mario Martone. In entrambi, tale arte ha una funzione centrale e organica alla trama; in entrambi, essa non è solo belle coreografie ma assurge a significati misteriosofici che affondano nella memoria ancestrale dei nostri antenati. In entrambi, ha un effetto – psichico oppure fisico – sulla realtà circostante. Ma mentre nel lavoro utopico di Martone i movimenti dei danzatori sono finalizzati a una trascendenza e a una consapevolezza di sé che porterebbero a una sorta di palingenesi spirituale – molto in linea con l’euritmia, la danza delle scuole esoteriche steineriane –, in Suspiria il ballo, se da un lato diventa anche qui ricerca di sé e interiorizzazione dei propri istinti, dall’altro si tramuta in strumento di malia, incantesimo e magia nera con il quale provocare veri e propri danni fisici alle persone. In ambedue i lungometraggi, comunque, la danza ha a che fare con una ricerca metafisica, ma in Suspiria questa vira ovviamente sul demoniaco rendendo il film di Guadagnino una sorta di ombra junghiana del film di Martone. Racconta Tilda Swinton che per le coreografie e per il personaggio dell’insegnante di danza Madame Blanc si sono ispirati – oltre che a Pina Bausch per il look – soprattutto a Mary Wigman, ballerina e coreografa tedesca specializzata nella danza espressionistica e nella free dance che lavorò sia durante il Terzo Reich che dopo: tempistica che lascerebbe intendere eventuali compromessi con il regime. I balli diventano così dei veri e propri rituali esoterici costruiti su elementi di geometria sacra – l’intricato meta-pentacolo che vediamo nell’esibizione pubblica – e costituiscono dei simboli energeticamente vivi, ponti tra la dimensione conscia e inconscia della psiche. Anche la forma visiva del racconto sussume su di sé l’aspetto occulto della trama con un montaggio – a opera di Walter Fasano, collaboratore abituale di Guadagnino – che taglia letteralmente le inquadrature moltiplicando i punti di vista di una stessa scena e affettandone lo spazio filmico in frammenti taglienti, quasi a ricordare gli strumenti a uncino con cui le streghe penetrano le carni delle povere vittime.
In altri momenti, invece, il montaggio, sempre serrato, si fa più onirico e subliminale, soprattutto nei sogni indotti dalle streghe che si mescolano ai ricordi di Susie riguardo la sua comunità di origine nell’Ohio (simile per contrappasso ai religiosissimi Amish). Le inquadrature e i movimenti di macchina sono sempre ricercati e ricordano in parte le sperimentazioni di Dario Argento. La fotografia ci cala spietatamente ed efficacemente nei colori spenti della Berlino del 1977 mentre quel geniaccio di Thom Yorke, leader dei Radiohead, firma una splendida partitura musicale che in parte asseconda le atmosfere del film e in parte le stempera con suoni onirici decisamente più soft. Va ricordata la grandissima prova di Tilda Swinton che non si è accontentata di interpretare la sola Madame Blanc ma, sottoponendosi a estenuanti ore di trucco, ha prestato corpo e volto anche all’anziano dottor Klemperer e a un altro personaggio di cui non diremo per evitare spoiler. Inoltre, la presenza di Jessica Harper, protagonista del Suspiria originale, impiegata in un breve cameo, riconnette con una strizzatina d’occhio l’opera di Guadagnino al cult di Argento.
Come detto all’inizio, Suspiria non è per tutti, sia a causa del suo abitare una sorta di limbo tra i generi e il film d’autore, sia per la presenza di un paio di scene efferate – tra cui l’ultima davvero estrema, che potrebbero turbare gli stomaci più deboli. Del resto, la categoria del perturbante è sempre parte integrante di tali storie. Non fa paura come un horror canonico ma riesce comunque a ipnotizzare lo spettatore e a trarlo in una dimensione soprannaturale che rimane sottilmente nella coscienza anche dopo la visione, rendendo così l’opera di Guadagnino un vero e proprio incantesimo cinematografico a tutti gli effetti.