Incattivita. Risulta così l’Italia nell’ultimo rapporto stilato dal Censis, l’istituto di ricerca socio-economica fondato nel 1964. Un report, quello presentato lo scorso 7 dicembre dall’amministratore delegato Giorgio de Rita e dal direttore generale Massimiliano Valerii, che, giunto ormai al suo 52esimo anno, analizza la situazione sociale del Paese nel tentativo di offrire un’interpretazione piuttosto fedele della realtà nazionale in costante mutamento. Ecco, dunque, che dal rancore prevalso nel 2017 – quando, nonostante alcuni segnali di rilancio, il blocco della mobilità sociale favoriva disagio e populismo dilagante –, in questo 2018 si è passati a un crescendo di cattiveria dovuto alla delusione per lo sfiorire della ripresa e per l’atteso cambiamento miracoloso – ovviamente non avvenuto – che ha spinto la popolazione ad alzare l’asticella, rivelandosi pronta a un funambolico camminare sul ciglio di un fossato che mai prima d’ora si era visto da così vicino, se la scommessa era poi quella di spiccare il volo. E non importa se si rendeva necessario forzare gli schemi politico-istituzionali e spezzare la continuità nella gestione delle finanze pubbliche. È stata quasi una ricerca programmatica del trauma, nel silenzio arrendevole delle élite, purché l’altrove vincesse sull’attuale. Pennellate decise, quelle dell’istituto, che si prestano alla definizione di un quadro chiaro e di interpretazione inconfutabile.
Basterebbero queste parole, in effetti, per spiegarsi la crisi identitaria e valoriale di un Paese sempre più in bilico e imbastardito come l’Italia di oggi. Una collera contagiosa che, attraversando lo Stivale da Nord a Sud, ha offerto poltrone comode a chi non è in grado di occuparle perché incapace di dare loro un senso meritevole di menzione, ma abilissimo nell’usurparle. Poltrone che ogni giorno, per noi tutti, si fanno boomerang e nemmeno ce ne rendiamo conto: è una reazione pre-politica con profonde radici sociali, che alimentano una sorta di sovranismo psichico, prima ancora che politico. Che talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria – dopo e oltre il rancore – diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare, spiega il Censis accompagnando i numeri all’analisi. Non è un caso, dunque, che il 63% degli italiani veda in modo negativo l’immigrazione da Paesi non comunitari (contro una media UE del 52%) e il 45% anche da quelli comunitari (rispetto al 29%). Inoltre, il 58% dei nostri connazionali pensa che gli immigrati sottraggano posti di lavoro ai nativi del Bel Paese, mentre il 63% li ritiene un peso per il welfare della nazione. Soltanto il 37%, invece, ne sottolinea l’impatto favorevole sull’economia. Giusto per non farsi mancare nulla, il 75% dei censiti, degni figli di Salvini, ritiene che l’immigrazione aumenti il rischio di criminalità e il 59.3% è convinto che nemmeno tra un decennio ci sarà un buon livello di integrazione tra etnie e culture diverse. Quando si dice i buoni propositi. Gli ostili, comunque, risultano alcune delle categorie più fragili: il 71% degli over 55 e il 78% dei disoccupati – per i quali, a quanto pare, sembra più facile prendersela con chi sta come o peggio di loro, piuttosto che con chi nega diritti e opportunità –, mentre il dato scende al 23% tra gli imprenditori. Un caso, forse, che di solito siano i meno propensi a regolarizzazione e contratti.
L’assenza di prospettive di crescita individuali e collettive, dunque, ha portato all’espansione di quel populismo che oggi focalizza il nemico in qualsiasi prossimo sotto tiro e genera un mostro chiamato decreto sicurezza: il 63.6% degli italiani è convinto, infatti, che nessuno ne difenda interessi e identità, costringendoli a una tutela fai da te. In questo caso, la quota sale al 72% tra chi ha un titolo di studio inferiore e al 71.3% tra chi può contare solo su redditi bassi. L’insopportazione degli altri sdogana i pregiudizi, anche quelli prima inconfessabili. Le diversità sono percepite come pericoli da cui proteggersi, di conseguenza il 69.7% non vorrebbe come vicini di casa i rom e una percentuale che varia dal 52 al 57% ritiene che per gli immigrati si faccia molto più di quanto si faccia per gli italiani. Dati di un cattivismo diffuso che erige muri invisibili ma spessi. Ecco perché rispetto al futuro il 35.6% è pessimista, il 31.3% è incerto e solo il 33.1% è ottimista.
Alla base di tale rifiuto del prossimo, stando al Censis, c’è la sfiducia generale, che ha contagiato il Paese, sia nella politica nostrana che in quella d’Oltralpe. Basti pensare che quasi un italiano su due ritiene che gli attuali politici siano tutti uguali. Non a caso, l’area del non voto in Italia si compone di 13.7 milioni di persone alla Camera e di 12.6 milioni al Senato, per un totale del 29.4% di astenuti alle ultime elezioni. Discorso simile, purtroppo, è applicabile agli organi sovranazionali, con soltanto il 43% dei nostri connazionali che pensa che l’appartenenza all’UE abbia giovato al Bel Paese, contro una media europea del 68%, superiore persino in UK, nonostante la Brexit. D’altro canto, la nostra è anche la nazione dove si registra la quota minore di cittadini che ritiene di aver raggiunto una condizione socio-economica superiore a quella dei genitori (23%): il 96% delle persone con un titolo di studio inferiore e l’89% di quelle a basso reddito sono convinte che resteranno nella loro condizione attuale poiché ritengono irrealistica la possibilità di diventare benestanti nel corso della propria vita, segno che l’immobilismo sociale non è altro che la consapevolezza di classi che si sono fatte caste, rendendo impossibile una scalata gerarchica. L’idea che le cose non stiano effettivamente mutando, dunque, balena nella mente di poco più di un italiano su due (56.3%) in barba a un governo che si definisce del cambiamento.
Numerose, allora, sono le nubi che proiettano la propria ombra su quello che un tempo era il Paese del sole, e non soltanto per questioni climatiche. Il pessimismo che avvolge ogni qualsivoglia speranza si propaga a dismisura, scavando come una fossa al domani, una chimera per chi crede nel libero scambio, ancor più che di merci, di persone e di idee, soprattutto. Da non sottovalutare, a tal proposito, l’invecchiamento ormai costante degli abitanti che affollano i territori dalla Valle d’Aosta alla Sicilia. Le cosiddette riserve di ottimismo, infatti, stanno costantemente venendo meno: la quota di giovani dai 15 ai 34 anni, da noi, è pari al 20.8% della popolazione, la più bassa tra tutti i membri dell’UE, diminuitasi soltanto nell’ultimo decennio del 9.3%. Un fenomeno che tuttavia, c’è da dirsi, è comune all’intero mondo occidentale dove le giovani generazioni rappresentano ormai una minoranza (23.7%). L’incattivirsi dell’Italia, dunque, appare più come il palesarsi di un fallimento dei cosiddetti grandi, di quegli adulti, vendutisi alla migliore delle rateizzazioni, che non hanno saputo consegnare un Paese, nonché un continente – ora vecchio per davvero –, adeguato ai propri figli. Un mondo che fosse all’altezza non delle loro aspettative, bensì delle loro capacità. Affinché la guerra di ieri non fosse la stessa di oggi.