Rosalind Krauss nel suo libro Teoria e storia della fotografia scrive che arrivare alla fotografia dopo aver frequentato in modo intenso e spesso movimentato il Modernismo è come provare un certo sollievo. Questo succede perché la fotografia va a proporre un rapporto diretto e assolutamente trasparente con la percezione o, meglio, con gli “oggetti” della percezione. Quest’arte, a differenza della pittura o della scultura modernista, non provoca alcun senso di privazione e di aggressione.
Nel corso di centoquaranta anni il Modernismo ha fatto uscire il mondo dalla cornice dell’immagine, svuotando l’arte alcuni dei suoi contenuti, ma nel frattempo c’è stato qualcos’altro che ha lavorato a poco a poco a riempirla di nuovo. Il Modernismo e la fotografia, infatti, coprono quasi esattamente lo stesso periodo, quindi se queste due arti vanno di pari passo, condividono il problema dell’impostura, uno dei temi cardine di uno specialista d’estetica quale Stanley Cavell, secondo cui l’impostura, per l’appunto, è al centro della pratica dell’arte.
Per il mondo artistico, una volta che si è liberato di ogni legame con la tradizione, è difficile stabilire una differenza tra ciò che è truccato e ciò che è autentico, e il problema è l’assenza di relazioni con i modelli di ciò che l’arte è sempre stata. La Krauss scrive che si tratta di qualcosa di troppo meccanico per essere considerato una rappresentazione dell’arte stessa, un linguaggio fortemente ermetico per funzionare come strumento di comunicazione. Non c’è abbastanza lavoro nella creazione di un’immagine che proviene dalla semplice pressione di un tasto, quindi, di conseguenza, la fotografia, per molti, non è un linguaggio.
Stieglitz è considerato come esempio perfetto in qualsiasi discussione sullo statuto della fotografia come arte dato che egli ha dedicato almeno i primi 25 anni della sua carriera a questo argomento. Il suo impegno si è visto nella scelta delle opere degli altri fotografi, nei saggi pubblicati in veste di redattore capo della rivista Camera Work e soprattutto nel suo lavoro che mostra la preoccupazione evidente di una definizione della fotografia.
In un’istantanea giovanile di Stieglitz come Sunlight and Shadows: Paula/Berlin (Luce e ombre: Paula/Berlino) scattata nel 1889, è possibile notare, come scrive ancora la Krauss, che attraverso la creazione elegante di zone di luce e di oscurità estreme, attraverso la giustapposizione di profili scuri, senza spessore, su uno sfondo spezzato da motivi complessi, si ricordano per vari aspetti i procedimenti formali della pittura di fine XIX secolo e una composizione complessa in cui viene svelato ciò che è, per sua natura, la fotografia. La donna è seduta e ha la testa abbassata verso un’immagine che occupa il centro del tavolo, ed è proprio l’immagine stessa che a sua volta rappresenta una giovane, molto probabilmente si tratta della stessa che sta scrivendo, in una cornice ovale decorata. A primo impatto potrebbe sembrare un dipinto, ma non è questo il caso in quanto appesa alla parete, proprio sopra la testa della donna, si trova un duplicato della stessa scena, una seconda stampa della stessa rappresentazione. La luce è feticizzata come fonte di visibilità da cui dipende la fotografia, e il motivo formato dalle striature della persiana modella le strisce alternate di ombra che si spezzano in forme decorative, inoltre la finestra – qui sotto forma di due ante-cornici aperte sulla scena – permette al fascio luminoso di entrare. Tutti questi “simboli” suggeriscono che ci troviamo di fronte a un otturatore, l’apertura meccanica il cui funzionamento permette alla luce di penetrare nella camera oscura della macchina fotografica. La Krauss scrive che l’immagine dunque rimanda al procedimento che è all’origine del suo essere specifico e che definisce la fotografia. Tale insieme di segni permette di sentire fino a che punto Stieglitz sia implicato in questa impresa simbolista intesa come teoria artistica profondamente interessata agli strumenti della trasposizione estetica.
Per quanto riguarda le fotografie di nuvole che l’artista ha realizzato tra il 1923 e il 1931, Equivalenti, invece, si tratta di opere che dipendono completamente dall’effetto di taglio; si ha come l’impressione di guardare immagini strappate con forza dal tessuto continuo dell’estensione del cielo. Il senso di queste immagini arriva a noi come un insieme impossibile da analizzare perché, semplicemente, sono ritagliate. Stieglitz ha eliminato dal campo dell’immagine ogni riferimento al suolo, alla terra e all’orizzonte, non si capisce dov’è l’alto e dov’è il basso. Attraverso la verticalità le nuvole rinviano al significato primo del taglio e lo raddoppiano: i due significati si rinviano reciprocamente l’un l’altro e si rafforzano vicendevolmente perché in entrambi i casi si tratta di mostrare esclusivamente il mondo per mezzo di un’immagine radicalmente separata dai suoi punti di ancoraggio, un’immagine che ha come soggetto il fatto di levare l’ancora. Nella misura in cui fissano la traccia di qualcosa di invisibile, scrive ancora la Krauss, le nuvole sono segni naturali trasposti nel linguaggio culturale della fotografia. In quella di Paula le diverse componenti dell’insieme finiscono per rappresentare altro, ma in Equivalenti la trasformazione funziona in blocco, in modo che il cielo nel suo insieme e la fotografia nel suo insieme siano posti in un rapporto simbolico reciproco. Il taglio, quindi, in queste immagini, non è un semplice fenomeno meccanico: la fotografia non è altro che una trasformazione assoluta della realtà.
Ogni opera d’arte, per la sua creazione, comporta un certo rischio, un rischio che consiste spesso nel lavorare senza certezza né garanzia di riuscita. Se non si è colto quel senso di vertigine dato dalle fotografie di nuvole di Stieglitz, allora non si sono viste davvero queste immagini, non si è visto ciò a cui lui ha dovuto rinunciare per farle funzionare. Vedere il rischio significa rendersi conto che, come succede in ambito artistico, lo scacco sarebbe sentito come un’impostura.
Ciò che accade con una fotografia è che essa è un oggetto finito. Una fotografia è ritagliata, non necessariamente da un paio di forbici o da una cornice, ma dalla macchina fotografica stessa. […] La macchina, in quanto oggetto finito, taglia una porzione di un campo infinitamente più grande. […] Una volta ritaglia la fotografia, il resto del mondo e la sua espulsione esplicita sono aspetti tanto fondamentali della pratica del fotografo quanto ciò che egli mostra esplicitamente. – Stanley Cavell
Perseguitato dall’ansia di possedere una identità fotografica ancorché cadere nella fotografia banale, mi sono imbattuto in questa lettura la cui peculiarità è paragonabile ad un miope che torna a vedere ciò che lo circonda, con altri occhi.