Nel mondo rappresentato dalla comunicazione massmediatica dell’odierna società dello spettacolo, assistiamo tutti i giorni alle vicende che riguardano l’enorme quantità delle merci dalle quali siamo circondati e su cui siamo informati dalla tv, dai giornali e dal flusso ininterrotto delle immagini/informazioni che scorrono sul web intorno alla loro presunta qualità e alle modalità accattivanti del loro acquisto. Degli uomini e delle donne che producono le merci, invece, sappiamo sempre meno. La loro “invisibile” esistenza quotidiana diventa oggetto di attenzione soltanto quando la catena della produzione, del commercio e del consumo viene messa in pericolo e la loro azione diventa un problema di ordine pubblico. Il film In guerra di Stéphane Brizé ribalta questa situazione e, attraverso la finzione cinematografica, rimette al centro della scena le vicende umane riguardanti le rivendicazioni di un migliaio di operai che lotta contro la perdita del lavoro, spesso unico sostegno economico-sociale per sé e per la propria famiglia.
Dopo aver accettato di sacrificare parte del loro guadagno e nonostante l’impresa industriale non abbia perso profitti, i lavoratori di una fabbrica francese che produce riforniture per il settore automobilistico si ribellano alla possibile chiusura del loro stabilimento decisa dai dirigenti perché la multinazionale tedesca della quale fanno parte diverse aziende sul territorio non ritiene più soddisfacente la quantità degli utili societari. Gli operai, molti dei quali sono in età matura ma non ancora vicini alla pensione, rifiutano ogni possibile accordo consolatorio e anche la mediazione delle figure governative, chiaramente schierate a difendere più le ragioni del mercato e dell’ordine sociale che quelle delle risorse umane. Capeggiati dal loro portavoce Laurent Amédéo – interpretato dal magnifico Vincent Lindon, un attore sempre più votato alle tematiche sociali –, i lavoratori fermano le linee di produzione e iniziano uno sciopero a oltranza per difendere il loro impiego. Alla fine, una parte degli operai cadrà nella trappola organizzata dalle alte sfere del potere politico ed economico e accetterà l’assegno di buonuscita. La lotta ideale ed esistenziale fallirà e le conseguenze della perdita del lavoro e di tutto ciò che significa per i singoli individui e il loro mondo vitale verrà rappresentato in un tragico finale.
Il sodalizio artistico tra Brizé e Lindon ha già dato ottime prove dal 2015, quando il regista presentò con successo a Cannes la sua opera La legge del mercato e l’interprete vinse il Premio come migliore attore. Al Festival di Cannes 2018, invece, con il suo En guerre (In guerra) il cineasta francese ha confermato la sua intenzione di farci vedere tutto ciò che sta dietro quello che ci viene mostrato dalle cronache dei giornali e della tv in occasioni di rivolta sociale ed episodi di violenza. La cinepresa, infatti, è per l’intera durata del film in mezzo agli operai e noi spettatori guardiamo le loro facce disperate, i loro corpi che si muovono tra le fila serrate, tranne i pochi momenti in cui si lasciano andare alla gioia dello stare assieme per allentare la tensione. Ci fanno rabbia inoltre, ma anche molta pena, le espressioni e le frasi politicamente corrette dei funzionari governativi e dei personaggi al vertice dell’azienda, che cercano di giustificare il loro operato con la terribile menzogna siamo tutti nella stessa barca. Quello che a molti può anche sembrare eccessivo naturalismo narrativo e ripetitività della messinscena, all’osservatore più attento può indicare una diversa rappresentazione cinematografica che si affida a quell’empatia – tante volte evocata e di rado vissuta – che nella vita reale significa semplicemente riuscire a mettersi nei panni degli altri.
Nella patria dove è nata la triade rivoluzionaria liberté, égalité, fraternité, il regista ci racconta dell’insopportabile distanza tra il dettato costituzionale della democrazia e la sua difficile applicazione nella realtà della vita collettiva, in un sistema locale e globale dominato dalle ragioni del mercato. La merce che avrebbe dovuto costituire, in teoria, il mezzo da produrre e distribuire al fine di offrire il benessere collettivo è diventata, in realtà, il fine societario a cui vanno sottomessi l’agire quotidiano e le vite degli esseri umani, diventati strumenti al servizio del capitalismo globalizzato, modello unico dell’economia e triste stile di vita societario anche agli inizi del Terzo Millennio. Vengono in mente le parole del grande Oscar Wilde quando diceva che oggi la gente conosce il prezzo di tutto e il valore di niente. In realtà, anche se può sembrare paradossale, siamo davvero tutti nella stessa barca, che forse sta per affondare, e alla fine le bugie del potere esprimono drammaticamente la fallimentare verità sulla vita sociale nel sistema-mondo del quale tutti noi facciamo parte.