In Italia, e in particolar modo a Roma negli ultimi giorni, è evidente il conflitto tra statale e privato. I capitolini, ad esempio, con il referendum ATAC si sono trovati a dover scegliere il male minore tra i due: il primo opera alla bene e meglio, superficialmente e in modo distratto, il secondo, invece, si regge sulla regola del massimo del guadagno, minimo della spesa. In entrambi i casi, i risultati sono decisamente discutibili. Di certo, il privato può, ancor più dello statale, migliorare i controlli, dato che il fine ultimo è quello di guadagnarci e non rimetterci ma, al tempo stesso, che impatto rischia di avere sui lavoratori che, se dipendenti dello Stato, sono molto più liberi e autonomi nella gestione del loro lavoro? Le varie amministrazioni che si sono susseguite a Roma non hanno saputo attuare interventi efficienti e, anzi, hanno fatto in sostanza quello che un privato avrebbe potuto fare: specularci su e permettendo così ai comitati radicali di richiedere un voto popolare.
Non è una novità che l’ATAC, l’azienda dei trasporti pubblici di Roma, sia in difficoltà, soprattutto dopo gli ultimi avvenimenti: autobus mal funzionanti o che prendono fuoco nel pieno centro della città con a bordo i passeggeri, controlli pressoché assenti e personale sfruttato e non stipendiato da mesi. Secondo quanto dichiarato nel 2016 dall’Assessore alla Mobilità capitolino, Linda Meleo, il debito dell’azienda già all’epoca era di circa 1.3 miliardi di euro, per questo si è stimato che sarebbero stati necessari circa 37 anni per risanarlo, un numero nettamente inferiore al periodo concesso alla Lega per la sparizione dei 49 milioni. Persino la dirigenza, inoltre, ha subito nel tempo dei turbamenti importanti: Bruno Rota, colui che ha risanato l’Azienda dei Trasporti Milanesi, è stato nominato direttore dell’ATAC nella primavera del 2017. Il suo compito era quello di fare lo stesso a Roma, tuttavia non è riuscito a lavorare come avrebbe voluto, e, dopo quattro mesi dalla nomina, ha presentato le sue dimissioni definendo la disastrosa situazione dell’azienda come pesantemente compromessa e minata in ogni possibilità di rilancio organizzativo e industriale. Nonostante le varie suppliche per farlo restare, dunque, Rota ha deciso di lasciare il suo incarico poiché forse ha compreso che la stessa ATAC e i suoi dipendenti, per quanto lui si fosse impegnato, non sarebbero stati in grado di essere salvati e, probabilmente, non volessero neanche esserlo. Attualmente, il CEO è Paolo Simioni, ex amministratore delegato della Centostazioni S.p.a., società nata dalla partnership tra Save e Ferrovie dello Stato per la gestione e la valorizzazione commerciale di 103 stazioni ferroviarie italiane di medie dimensioni. Una persona che sa il fatto suo ma che, al tempo stesso, non ha mai maturato esperienze specifiche nell’ambito del trasporto pubblico locale prima del nuovo impiego. Nessuna di queste personalità competenti, però, sembra essere in grado di attuare concretamente un piano per salvare l’azienda romana e quindi, a questo proposito, domenica 11 novembre si è svolto un referendum consultativo.
Promosso dal comitato Mobilitiamo Roma, il voto popolare è stato richiesto poiché per anni l’azienda è stata usata da tutti i tipi di amministrazione: Occorre mettere a gara il servizio affidandolo a più soggetti, rompendo il monopolio e aprendo alla concorrenza. Le gare stimolano le imprese, pubbliche o private che siano, a comportarsi in modo virtuoso, e l’apertura alla concorrenza introdurrebbe anche forme più moderne e innovative di trasporto. In poche parole, è stato chiesto ai cittadini di scegliere se voler mettere o no a gare pubbliche, anche a una pluralità di gestori, l’azienda e dunque prendere in considerazione la possibilità di privatizzarla. Le gare pubbliche, ovviamente, avrebbero dovuto essere fatte in modo efficiente: una concorrenza pulita e una selezione accurata dato che, per chiunque vi avrebbe partecipato, la posta in gioco, ovvero la gestione dei trasporti della Capitale, sarebbe stato certamente un bell’affare. La votazione tuttavia, probabilmente anche a causa della poca informazione, è stata fallimentare: l’affluenza, pari al 16.3%, non ha raggiunto il quorum richiesto del 33.33%.
Eppure, l’azienda romana, cosa che in pochi sanno, dal 2010 ha già ceduto una parte del suo trasporto pubblico: il 20% infatti è stato affidato alla società Roma TPL, a seguito di una gara europea. La Roma TPL attualmente si occupa delle aree periferiche vicino al G.R.A. e di una parte del servizio notturno grazie a un accordo stipulato con l’ATAC. Il contratto di servizio tra Roma Capitale e Roma TPL però, anche se potrebbe subire un’eventuale proroga di sei mesi, è in scadenza proprio nel 2018. Inoltre, nonostante la parziale privatizzazione, quasi la metà dei dipendenti della Roma TPL viene stipendiata in ritardo.
All’indomani dei risultati, quindi, c’è un dato rilevante che l’amministrazione capitolina non dovrebbe sottovalutare: il 75% dei votanti ha risposto sì alla messa a bando del trasporto pubblico. È evidente dunque che il servizio che offre il Comune di Roma, per i suoi utenti, risulta non abbastanza efficiente e che debba essere trovata, al più presto, una soluzione.