Esce oggi, nelle sale dei cinema italiani, A Private War, biopic diretto da Matthew Heineman che racconta la storia della giornalista pluripremiata Marie Colvin, interpretata dalla candidata all’Oscar (per il film Gone Girl) Rosamund Pike. Ma chi è questa donna che il regista ha deciso di omaggiare nella sua pellicola?
Nata il 12 gennaio 1956 ad Astoria, nel Queens, Marie Catherine Colvin ben presto si trasferisce a Oyster Bay, nella contea di Nassau, dove riceve la sua educazione. Si diploma infatti all’Oyster Bay High School, nel 1974, e prosegue gli studi all’Università di Yale, scegliendo il percorso per diventare antropologa. Nel frattempo, il suo nome diventa popolare nel campus per le numerose battaglie che porta avanti da protagonista e per la sua collaborazione con lo Yale Daily News, che le fa comprendere, prima di terminare l’ultimo anno, che la sua strada è quella del giornalismo. Così, subito dopo essersi laureata nel 1978 in antropologia, la giovane comincia a collaborare come reporter per l’agenzia United Press International, per la quale lavora prima a Trenton, poi a New York, infine a Washington. Sempre per l’UPI nel 1984 diventa responsabile del bureau di Parigi.
Nel 1985 Marie lascia la United Press International per trasferirsi al Sunday Times, con cui collabora fino alla fine dei suoi giorni. Per il giornale inglese Colvin è prima corrispondente in Medio Oriente e poi degli Affari Esteri. Numerosi sono i reportage che la giornalista pubblica sulle pagine del quotidiano, tutti risultati del suo spirito libero e avventuriero privo della paura di recarsi in zone devastate dalla guerra, dove per sopravvivere è necessario avere riflessi pronti e spirito freddo. Con i suoi articoli, vuole raccontare una storia diversa da quella narrata dalle grandi forze internazionali e dai potenti: ciò che intende fare è mostrare le vicende attraverso gli occhi di coloro che sono costretti al silenzio, che non hanno i mezzi per parlare, gli unici che, però, hanno il diritto di farlo.
Senza timore, Marie soggiorna in Cecenia, in Kosovo, nella Sierra Leone e a Timor Est. Proprio qui, nel 1999, salva la vita di 1500 civili, tra donne e bambini, barricati in un complesso assediato da alcune truppe indonesiane. Colvin rifiuta di abbandonarli e resta con loro per quattro giorni, fino alla liberazione, raccontando passo dopo passo cosa sta accadendo. Inoltre, è la prima a intervistare Mu’ammar Gheddafi quando cominciano i bombardamenti degli Stati Uniti in Libia. Come se non bastasse, nel 2002, è anche la prima giornalista, dal 1995, ad addentrarsi in territorio tamil. Entrata in Sri Lanka, ne documenta la crisi umanitaria e ottiene persino un colloquio con il comandante del movimento anti-regime. Tuttavia, sulla via del ritorno, assediata dall’esercito, non riesce a identificarsi come reporter americana e viene sparata a vista, riportando ferite all’occhio sinistro e ai polmoni. Arrivata a New York per essere operata, i medici non riescono a salvarle la vista. Da questo momento, una benda nera le copre l’occhio, diventando uno dei suoi segni più rappresentativi. L’episodio, purtroppo, ha ripercussioni sulla sua salute psicologica: Marie inizia ad avere incubi ricorrenti e a soffrire di disturbo post traumatico da stress. Eppure, non rinuncia alla ricerca della verità.
Nel 2002, infatti, è nella città assediata di Homs, in Siria, dove le atrocità sono all’ordine del giorno. la reporter vuole raccontare quanto vede, tutte le brutalità, la sofferenza e il dolore degli abitanti di quei luoghi. Tuttavia, il 22 febbraio, alle 6 del mattino, la casa in cui pernotta viene presa di mira da quanti vogliono silenziare chi denuncia gli orrori che tormentano la città. Il rifugio viene bombardato e la giornalista perde la vita. La voce rauca, da fumatrice, della piratessa americana viene fisicamente messa a tacere, ma se i suoi reportage non smettono di essere letti e la sua storia viene ancora raccontata, idealmente, il coraggio di Marie continua a vivere.