Ancora non smette il capoluogo piemontese di essere preda della sua eterna crisi di identità post-FIAT, tratto somatico costante di una città in estenuante fase di riconversione industriale ormai da circa un ventennio. Per questo, forse, si è nuovamente tornati a sentire lungo le pieghe urbane, come nelle principali piazze cittadine, sia fisiche che mediatiche, un costante, inquieto brusio di fondo che amleticamente continua a interrogare i torinesi su chi, come e cosa poter continuare eventualmente a essere.
Insomma, la mancata accensione di una nuova torcia olimpica ha avuto, per la città che fu di Salgari, Gramsci, Primo e Carlo Levi, come di Giovanni Agnelli, quale unico e paradossale esito, solo quello di aver riacceso vecchie, inquietanti, ma soprattutto mai sopite domande. Non ci resta dunque che provare a fare il punto della situazione in maniera un po’ più dettagliata e, per farlo, non può esserci cosa migliore se non ascoltare due voci contrastanti in seno alla stessa maggioranza pentastellata su cui si regge l’odierno governo cittadino all’ombra della Mole, quelle dei Consiglieri Marina Pollicino e Marco Chessa. Due punti di vista opposti che hanno guardato alla prospettiva di una nuova Olimpiade fissata per il 2026 come inopportuna la prima e come un’occasione il secondo.
Inopportuna per via di tutta una serie di ragioni legate a valutazioni di sostanziale insostenibilità, da sempre espresse da parte del M5S e a cui alcuni Consiglieri legati ai caratteri più essenziali dello stesso MoVimento hanno ritenuto di non dover rinunciare neanche in una tale contingenza per una questione di pura e semplice coerenza. C’è, poi, l’esempio di Roma che va assunto, a detta dei sostenitori del no, come caso scuola tanto più per una comunità come quella torinese in cui l’indebitamento ulteriore legato all’eventuale e ormai scongiurata investitura olimpica altro non avrebbe fatto se non incidere negativamente sul già fragile welfare sanitario, educativo e dei trasporti.
E le cosiddette valli olimpiche lasciate a se stesse con i loro cadaveri dall’inverno 2006? Che ci pensino loro da sole ad attirare investitori per rilanciare un possibile futuro sportivo e turistico del territorio, a Torino non si può certo appaltare il funzionamento della cosa pubblica a interessi privati per realizzare un evento sportivo e sociale, seppur di richiamo internazionale, che però non gode della stessa convergenza di cui poté godere nel 2006, quando la città era già di per sé calata in una fase di profonda trasformazione durante la quale le Olimpiadi contribuirono soltanto ad aggiungere qualche tocco ben assestato di make-up urbano, sulla base di risorse che oggi mancano e che gli impegni eventualmente assunti con il CIO avrebbero definitivamente azzerato, portando la città verso un inevitabile default finanziario. Insomma, in un mondo in cui tutti i possibili candidati si sono progressivamente ritirati dai giochi uno dopo l’altro, perché Torino avrebbe dovuto continuare a farsi del male? Queste, in estrema sintesi, le posizioni da cui non ha ritenuto di dover recedere la Consigliera Marina Pollicino.
Altra visione, totalmente opposta, quella espressa da Marco Chessa, Consigliere da sempre a favore del sì e legato, a detta di chi la pensa come lui, a una visione decisamente più aperta e internazionale di quello che avrebbe potuto e ancora potrebbe essere il ruolo di Torino, se collocata in un contesto come quello offerto da una nuova, ormai mancata Olimpiade. Ma come si affronta allora il problema del debito di una città già stretta nella morsa di un durissimo piano di rientro com’è oggi il capoluogo piemontese? A domanda, ovviamente, ne è seguita un’altra piuttosto sarcastica: perché in questo modo, rendendola inappetibile a chiunque, si è forse affrontato o risolto il problema del rientro dal debito? Effettivamente no e, lungi dal volerla trasformare in un eventificio, l’idea di fondo da sposare si sarebbe dovuta legare alla possibilità di sfruttare la nuova manifestazione olimpica come porta da aprire al mondo e sul mondo, di modo tale da dare ossigeno a un sistema locale, ma anche regionale, sfiancato da quell’addio di santa madre FIAT, oggi FCA, dichiarato, perseguito e ottenuto, per conto di una proprietà pescecane, da parte dell’allora amministratore delegato Sergio Marchionne.
Per dirla con le parole di Paul Krugman, il peso che Torino porta su di sé è, nei fatti, il riflesso di un preoccupante processo di mezzogiornificazione dell’intera Italia e la porta olimpica aperta sul resto del mondo avrebbe potuto sbloccare una situazione di stallo dal punto di vista dell’ingresso di capitali, anche privati, di cui la città necessita e che da sola non potrà mai trovare se non continuando a inasprire la tassazione diretta, perdendo in tal modo appeal sull’elettorato e senza neanche raggiungere, in ogni caso, un adeguato livello di gestione della cosa pubblica, sempre più deficitaria anche sul piano di quella partecipazione diretta di cui il M5S si è sempre nutrito.
Olimpiadi dunque come occasione (persa) di ricerca per provare a ritrovare un’identità perduta, soprattutto in relazione a un territorio fatto di grandi potenzialità sul piano del patrimonio artistico-culturale e ambientale, nonché di innumerevoli occasioni legate alla riscoperta di radici che necessiterebbero solo di un po’ d’acqua, come il modello Langhe insegna, e che Torino potrebbe ritrovare con le nuove prospettive che sembrano aprirsi con il polo biotecnologico legato al futuro Parco della Salute, il know-how tecnico che da sempre è in grado di generare, o la rivoluzione in atto prospettata dalla stampa 3D e le tecnologie a essa associate, in ogni ambito del sapere come della produzione. Questa volta, però, senza lasciarsi scappare di mano nulla, evitando cioè di svendere idee al primo, presunto miglior offerente e scongiurando, dunque, il temibile rischio e vizio storico di fare ogni volta la fine di una bella addormentata nel bosco fitto di una deindustrializzazione di massa, che oggi non può più permettersi di aspettare un principe che ormai, si è capito, non arriverà più.