Nonostante i tagli che ogni anno si perpetuano nei confronti dei centri di ricerca italiani, questi vanno avanti con il proprio lavoro, anche se con meno mezzi per affrontare nuovi progetti degni di una lungimiranza data da un’adeguata sicurezza economica e piuttosto concentrati a mantenere in vita quelli già intrapresi.
I rapporti non sono consolanti: dal 2008, il primo anno della crisi mondiale, l’Italia ha perso più di un miliardo di euro e circa 10000 ricercatori, perché fuggiti all’estero, dove poter svolgere le proprie mansioni con una maggiore tranquillità economica, oppure perché hanno abbandonato la ricerca per un lavoro diverso: biologi, biotecnologi, ingegneri ma anche archeologi, storici dell’arte, filologi, linguisti, una volta scaduto il contratto di ricerca – che garantisce un compenso davvero misero rispetto alla mole di impegno richiesta – si ritrovano quasi a essere obbligati a decidere come impiegare le competenze acquisite, finendo nella maggior parte dei casi ad appendere il camice al chiodo.
Eppure le soddisfazioni, anche e soprattutto in questo clima di instabilità, ci sono ugualmente: al Sud come al Nord sono presenti istituti, università, centri e fondazioni che continuano a dare il loro contributo a livello internazionale. Secondo la rivista scientifica Nature, infatti, l’Italia, tra le principali nazioni attive nella ricerca (insieme a USA, Russia, Cina, Giappone, Gran Bretagna, Germania, Francia e Canada), si trova agli ultimi posti per percentuale di GERD (spesa interna lorda per ricerca e sviluppo) rispetto al PIL, ma è terza stando al numero di articoli pubblicati e alle citazioni per unità di GERD, ed è prima per numero di articoli per ricercatore, sebbene quest’ultima fonte potrebbe apparire falsata perché nella maggior parte dei casi il conteggio viene effettuato soltanto tra i ricercatori strutturati, quelli con un contratto e una retribuzione vera e propria, senza tener conto di tutta l’équipe, molto spesso in piedi anche grazie al prezioso aiuto di studenti e neolaureati, per lo più volontari.
Un centro tra tanti, motivo di orgoglio partenopeo, è l’Istituto Nazionale Tumori Fondazione Pascale, Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS), comunemente chiamato dai non addetti ai lavori Ospedale Pascale, conosciuto, almeno in Campania, a chiunque abbia dovuto affrontare una battaglia contro un carcinoma o abbia affiancato un proprio caro in questo difficile percorso, ritenuto come il più grande centro oncologico del Sud e uno dei più grandi in Italia e in Europa.
Qui, coadiuvati da importanti finanziamenti dell’Unione Europea e della Regione, nonché da donazioni di privati e dal sostegno dell’AIRC, Associazione italiana per la Ricerca sul Cancro, sono portati avanti progetti di ricerca e campagne informative destinate al territorio e al web, come quella che ha per hashtag #iomicuroalsud che cerca di informare su tutte le possibilità di cura presenti il più vicino a sé prima di ricorrere al fenomeno del turismo sanitario, ovvero il doversi spostare fuori dalla propria regione di appartenenza per recarsi in strutture ospedaliere più attrezzate e all’avanguardia. Anche da queste attività parallele al lavoro ospedaliero vero e proprio il Pascale dimostra un’attenzione verso il paziente a 360 gradi: dalla prevenzione alla ricerca, dalla cura al controllo post operatorio.
Tra i progetti, catturano la nostra attenzione gli ultimi, pubblicati e presentati all’estero: tre studi differenti che riguardano il carcinoma al seno e quello al fegato. Il primo, frutto di uno lavoro durato 14 anni condotto dalla squadra del dottor Francesco Perrone, oggi direttore dell’Unità Sperimentazioni Cliniche del Pascale, presentato a Monaco al XX Congresso Europeo di Oncologia, consiste nell’aver abbinato un farmaco per l’osteoporosi a una terapia che prevede il blocco della produzione di estrogeni, particolarmente efficace nelle donne colpite in età mestruale. Lo studio, chiamato Hoboe, ha riguardato 1065 pazienti con età inferiore ai 50 anni, seguite non soltanto al Pascale, coordinatore e capofila del progetto, ma anche in altri centri italiani. Grazie a questa specifica combinazione dell’acido zoledronico più il letrozolo, la percentuale di chi presenta una recidiva a cinque anni dall’inizio della malattia si riduce dal 15 al 7%: ovviamente, la ricerca è ancora in fase di sperimentazione ma si potrebbe quasi già affermare che si è raggiunto un ulteriore passo in avanti nell’utilizzo della terapia ormonale precauzionale delle giovani colpite.
Un altro sviluppo, presentato a Monaco, per quanto riguarda l’Oncologia senologica, diretta dal professor Michelino de Laurentiis, è stato quello riguardante il cancro al seno triplo negativo in fase avanzata, che conta circa il 25% di quelli metastatici, per i quali fino a ora non vi sono stati farmaci capaci di contrastare l’avanzare del tumore. Con l’immunoterapia, soprattutto per il 40% delle pazienti che esprime il marcatore PD-L1 l’aspettativa di vita è allungata, come se il sistema immunitario restasse allertato con il progredire della malattia, producendo così maggiori risultati sulla sopravvivenza.
Queste notizie, associate a quella della scorsa settimana riguardante il primo paziente campano, il quinto al mondo, sottoposto tra le mura del Pascale stesso a un vaccino contro l’epatocarcinoma, il cancro al fegato, con una somministrazione di un farmaco di unica sperimentazione in corso nell’intero pianeta, ovvero l’Hepavac, grazie a uno studio quinquennale diretto dal professor Luigi Buonaguro, portano una ventata di speranza e di freschezza in un clima, soprattutto politico, che tende a sminuire l’importanza di una prevenzione consapevole e della ricerca scientifica in sé, legittimando in questo modo i tagli e la carenza di fondi generalizzata. In un’Italia dove a essere sempre più dannosi non sono i vaccini, ma l’ignoranza ottusa e senza aperture, quella sì.