Quando Epicuro ci fece notare come nessun uomo potesse coesistere con la propria morte, nessuno poté davvero contraddirlo. Il celebre filosofo greco invitava i suoi ascoltatori a non temere la propria dipartita e lo faceva ricordando loro che in effetti
“quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte noi non siamo piú. Non è nulla dunque, né per i vivi né per i morti, perché per i vivi non c’è, e i morti non sono piú.”
Di per sé questa consapevolezza sarebbe dovuta bastarci, eppure siamo ancora qui a chiederci come mai l’uomo non riesca a liberarsi dal peso della morte. Epicuro stesso ci avrebbe accusati di stoltezza dal momento che il nostro vero dolore non è nella morte, ma nella sua attesa. Tutti sappiamo, infatti, che non vi è sofferenza nella non-vita, ma l’idea di un passaggio repentino e antitetico tra l’essere-nel-mondo e il non-essere-più pare comunque non poterci consolare.
Il nostro vero nemico non è la morte, ma la mortalità. La data di scadenza sui prodotti alimentari, il ticchettio degli orologi negli ospedali, le assicurazioni sulla vita, il bungee jumping, gli amori falliti, il funerale dei nostri genitori. La caducità, non la fine.
In quest’ottica, pur prendendo per vere le parole del pensatore greco, dobbiamo riconoscere che negli occhi di ogni uomo esiste la morte – di ogni cosa – ed esiste sé stesso.
Questo pensiero, con il tempo, diviene incessante e sottile. Permea il nostro modo di vedere la vita, di preservarla quanto più possibile, di essere prudenti, e contemporaneamente si adagia sotto la superficie delle cose, così da divenire parte della nostra stessa consistenza. Finirà, finiranno, finirò.
Non fatichiamo allora a riconoscere come estremamente familiari le parole dell’ultima canzone del cantautore Brunori Sas La verità:
“La verità è che ti fa paura l’idea di scomparire, l’idea che tutto quello a cui ti aggrappi prima o poi dovrà finire. La verità è che non vuoi cambiare, che non sai rinunciare a quelle quattro o cinque cose a cui non credi neanche più.”
Lapidaria e oracolare, la parte centrale del brano è un grido di onestà contro la malsana prudenza e l’immobilismo a cui spesso ci condanniamo pur di preservarci, pur di non scontare il prezzo del rischio, che è la perdita. Si fatica a non riconoscersi, si fa fatica a non ricordare quella sensazione che si prova quando si parte per scalare le montagne e poi ci si ferma al primo ristorante, quando la sicurezza prende il posto della vitalità. Non è una causalità che queste due rivelazioni siano collocate in modo potente l’una accanto all’altra. L’esperienza della scomparsa, del cambiamento, della perdita, una volta interiorizzata, crea un solco dentro di noi, ci rende consapevoli. La paura di essere destinati allo scomparire ci immobilizza, la nostra tensione primaria verte verso l’atto di congelare e prevenire il logoramento delle cose. Si creano le abitudini, si cerca di realizzare azioni con sforzi minori, di abbassare le proprie pretese verso il futuro, di nutrire le certezze.
Ma è davvero possibile essere felici così in un mondo in cui non è possibile sottrarsi al gioco della metamorfosi e in cui tutto ci appare al di fuori del nostro protettivo controllo? Tutto muta, tutto è destinato è svanire. Non possiamo fermare il movimento turbinoso della natura, quindi abbiamo dinanzi a noi due strade per poter convivere con il nostro destino. La prima è, come abbiamo appena detto, quella dell’autoconservazione; la seconda è quella che invece ha dato vita a un’altra importante composizione, ovvero La natura del gruppo italiano Baustelle:
“Non m’importa di cercare leggi di stabilità. Tolgo la sicura, seguo la Natura, forse arriverà un tempo dove la diversità, amore mio, sarà l’unico modo per mostrare a tutti quanti la felicità. È la metamorfosi la sola possibilità. Ne sono sicura, muove la Natura e la biologia. Di conseguenza anche nella nostra società tutto si trasforma: l’ignoranza, l’arte, la democrazia.”
Un’altra possibile via è quella di assecondare la metamorfosi, di seguire in modo concorde i mutamenti e le perdite dell’esistenza, senza opporvisi con rancore o paura. In un certo qual modo, si tratta di accettare la natura della Natura, di riprenderci la bellezza di pensare al futuro senza l’angoscia di ciò che ci chiederà in cambio per realizzarsi. Di adeguarsi al nostro contratto a tempo determinato sulla Terra, sentendoci parte di questo immenso flusso che parte dal cosmo e finisce dentro di noi. E se è vero che siamo nati dalla morte di una stella, allora questo destino di morti e rinascite è stato la chiave che ci ha permesso di avere la nostra possibilità di esistere. Un cielo stellato dentro di noi e la legge morale sopra di noi, negli astri.
“Non lo trovi emozionante ciò che sai che sfiorirà? L’ora dell’ibisco, l’epoca del disco son finite già. Alla fine è commuovente ciò che sai che muterà. Sta nella crisalide l’essenza della vera libertà. Offrendo il corpo ad un bagliore, pensando può non durare, essere sole, l’ultima volta, sì, vivo così.”