Dalla fine di settembre, da quando Netflix l’ha resa disponibile, non è possibile non aver sentito parlare di Maniac, una miniserie TV composta da 10 episodi che ha come protagonista la coppia formata dal premio Oscar Emma Stone e il candidato alla statuetta Jonah Hill, già precedentemente visti insieme in Suxbad.
Creata, diretta e in parte anche scritta da Cary Fukunga, la serie si presenta come un prodotto di non facile fruizione, dove generi televisivi ed epoche diverse si fondono per dar vita a un universo composito e caotico, in cui elementi degli anni Ottanta si mescolano a fattori decisamente avveniristici. Nella New York futuristica creata da Fukunga e su cui padroneggia la Statua della Extra-libertà, si muovono Annie Landsberg, ragazza dall’aspetto stanco, depressa, dipendente da una nuova droga, convinta fermamente che l’universo è caos, e Owen Milgrim, quinto figlio e pecora nera di una ricca famiglia del luogo, affetto da schizofrenia, che crede di essere stato prescelto per salvare il mondo e che proprio questo mondo sia regolato da uno schema ben preciso (The pattern is the pattern). I loro cammini si incrociano quando entrambi, per diversi motivi, decidono di partecipare a un trial farmaceutico alla Neberine Pharmacentical Biotech (NPB), che promette, attraverso l’assunzione di tre pillole, di curare qualsiasi malattia mentale di cui i partecipanti sono affetti.
Il test a cui i due protagonisti prendono parte diventa pretesto, in Maniac, per parlare della malattia mentale, non rinchiudendo chi ne è affetto nelle quattro mura di un manicomio, ma esplorandone la mente. Infatti, anche se la maggior parte dell’azione si svolge nelle stanze della NPB, l’assunzione da parte di Annie e Owen delle tre pillole dà l’oppurtunità di entrare nelle loro teste che si trasformano in un palcoscenico che muta le sale dell’esperimento in mondi fantastici dove le manie e le patologie di cui soffrono prendono vita attraverso scenari sempre diversi ripresi da dark comedy, fantasy o thriller, ma soprattutto dove i protagonisti continuano a incontrarsi, nonostante i ricercatori a capo del progetto persistano a dividerli, poiché la loro interconnessione è controproducente ai loro fini. I due sembrano inesorabilmente collegati da un filo, che li porta a rivedersi più e più volte mentre affrontano i loro traumi: Annie cerca di fare i conti con la scomparsa della sorella minore, di cui si sente estremamente responsabile, e Owen cerca di guarire da quelle ossessioni e quelle smanie che gli fanno immaginare persone e lo fanno sempre sentire inferiore.
Attraverso una fortuita coincidenza, quindi, i personaggi principali di Maniac si trovano e capiscono che sono in qualche modo ineluttabilmente legati l’uno all’altro. Tra le loro menti c’è un un vincolo che fa sì che il destino dell’uno si intrecci in modo inevitabile a quello dell’altro e che il chaos in cui crede fermamente lei venga messo in ordine dal pattern a cui si ancora lui, o, meglio, che il chaos e il pattern hanno bisogno di coesistere. Nonostante le titubanze nell’accettare questo indissolubile collegamento prima da parte di Annie e poi da parte di Owen, spaventato dalla possibilità che la donna possa essere una sua fantasia o che possa finire per allontanarla a causa della malattia, nel suo svolgersi la serie ci mostra che se è vero che le medicine somministrate in parte li aiutano a identificare, elaborare e risolvere i traumi che li perseguitano, a salvare i due soggetti è la loro connessione. Una connessione che comincia dal momento in cui la ragazza lascia cadere per strada il cubo di Rubik che verrà raccolto da Owen e attraverso cui egli salverà la vita ai partecipanti del trial, permettendo anche ad Annie di fare i conti e accettare la perdita della sorella. La stessa Annie dà al giovane la chiave per redimerla e per redimersi, perché proprio la sua ripresa gli permetterà di salvarsi da se stesso.
Maniac si presenta, quindi, come un marasma di epoche e generi, un prodotto in cui grottesco, sublime, comico e tragico si mescolano creando una nuvola di confusione. Ciononostante, dietro la sua complessità e il suo citazionismo nasconde un messaggio molto semplice, cioè che a stapparci dal pericolo che rappresentiamo per noi stessi e dalle nostre psicosi, in un mondo in cui la tecnologia ci sta sempre più allontanando e ci sta sempre rendendo più soli, è qualcosa di eccezionalmente elementare: le connessioni umane.