Dal 1817, nel British Museum di Londra c’è un padiglione in cui sono custoditi parti di fregi, sculture frontonali del Partenone e altri elementi architettonici dell’Acropoli di Atene. La nostra attenzione, tuttavia, è stata catturata da una piccola saletta laterale in cui è presente un plastico della parte alta della città nel suo momento di massimo splendore, schermi con ricostruzioni video e volantini per il visitatore che illustrano brevemente la questione dei marmi di Elgin: il punto di vista del British nei confronti della legittima richiesta della Grecia di riavere i marmi. Una richiesta che, per ora, non è stata sostenuta da un’azione legale vera e propria, nonostante anche la famosa avvocatessa internazionalista Amal Alamuddin Clooney abbia lavorato alla causa con il suo studio legale londinese presentando al governo greco una relazione dettagliata con basi legali ritenute troppo deboli dal Parlamento ellenico. L’unica strada percorsa, al momento, è stata quella di un lento processo diplomatico, con la mediazione dell’Unesco dal 2014, dato che per i greci il Partenone costituisce un’unica opera d’arte, inscindibile.
Anche se è abbastanza palese che Thomas Bruce, il conte di Elgin, abbia portato i resti via mare dalla Grecia alla Gran Bretagna in circostanze alquanto fumose durante il dominio dell’Impero Ottomano nella terra di Platone, dopo l’acquisizione del governo inglese nel 1816 i marmi sono diventati di diritto del Regno Unito, seppure con pressioni sempre più incalzanti da parte di Atene che ha persino adibito nel nuovo museo dell’Acropoli, aperto nel 2009, un’ala per ospitare tutti i rilievi frontonali riuniti, secondo il reale orientamento del Partenone.
Quella delle restituzioni, però, è una questione che riguarda anche l’Italia: a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, in pieno Neoclassicismo, soprattutto dopo le scoperte dei siti archeologici di Pompei ed Ercolano, infatti, in tutta Europa ma non solo scoppiò una vera e propria frenesia collezionistica al reperto, percepito solo come feticcio da avere in casa o da mostrare in società e non come manufatto antico, quindi con una sua importanza per quello che rappresenta in un contesto archeologico, a prescindere dalla manifattura e dal materiale con cui è stato prodotto.
I più grandi musei internazionali sono pieni di testimonianze provenienti dal nostro Paese, scavate da tombaroli in contesti illegali e rivendute a volte con false certificazioni direttamente o in aste per collezionisti o addirittura ai musei, nel pieno della clandestinità. Una vera e propria archeomafia, che nel nostro Paese viene fronteggiata anche grazie all’aiuto dei Carabinieri per la Tutela del Patrimonio Culturale (CTP). Istituito nel 1969, cinque anni prima del Ministero per i Beni e le Attività Culturali, questo Comando speciale dell’Arma si occupa nella fattispecie di contrastare gli scavi clandestini, la ricettazione e il recupero di beni trafugati.
Una delle ultime operazioni conclusasi con successo lo scorso luglio, anche grazie alla sinergia con organi di polizia internazionale, è stata l’Operazione Demetra, svoltasi in quella che era la terra della dea delle messi e del grano: la Sicilia. Qui, infatti, è stata smantellata un’organizzazione criminale internazionale che si muoveva tra Italia, Germania, Gran Bretagna e Spagna e che almeno dal 2014, anno di inizio delle indagini, scavava, ripuliva, certificava con falsi attestati e rivendeva a compratori singoli o fondazioni i beni rubati, per un totale di più di 20mila reperti dal valore di oltre 40 milioni di euro. Purtroppo, però, una volta fuori dall’Italia è davvero difficile rivendicare il sito d’origine di un manufatto archeologico e quindi avviare il sequestro da parte degli inquirenti e la conseguente restituzione alle istituzioni italiane, ma grazie alla tenacia di archeologi, istituzioni e CTP, che spesso lavorano di pari passo verso l’obiettivo comune del ritorno in patria, sono sempre più i resti che grazie alla burocrazia tornano definitivamente nel loro luogo di origine.
Un caso particolare è quello del museo di Aidone, in provincia di Enna, che contiene ben tre ritorni provenienti dal sito di Morgantina: parti di due acroliti raffiguranti la dea Demetra con sua figlia Kore, restituiti nel 2010 dal Metropolitan Museum di New York, la statua della cosiddetta Venere di Morgantina, restituita dal Paul Getty Museum di Malibu nel 2011 e la famosa Testa di Ade, restituita nel 2016, anche questa dal Getty Museum, ritornata a casa grazie a un ricciolo di barba ritrovato proprio presso il sito archeologico di Morgantina dello stesso colore blu perfettamente combaciante al reperto di Los Angeles. Ma non sono gli unici esempi: difatti, negli ultimi anni, l’Italia ha potuto riabbracciare altri reperti come il cratere di Euphronios, acquisito nel 2007 dal Metropolitan Museum di New York, ora conservato al Museo Archeologico di Cerveteri, e i marmi di Ascoli Satriano, tra cui ricordiamo la statua di Apollo con grifo e il sostegno da mensa con due grifoni che sbranano una cerva, opera davvero eccezionale per tema e manifattura, trafugati negli anni Settanta e venduti pure questi al Paul Getty Museum. Lo stesso istituto che ha in possesso anche il cosiddetto Atleta di Fano, statua bronzea ritrovata lungo i litorali marchigiani nel 1964 e trasportata illegalmente al museo-villa di Los Angeles. Per questa scultura, la magistratura italiana ha disposto il sequestro ma, nonostante una campagna social promossa dall’Osservatorio Internazionale Archeomafie e la rivista Cultural Heritage Crime, la strada per tornare nel Bel Paese è ancora molto lunga.
C’è da sottolineare, tuttavia, che nonostante gli sforzi, una volta rientrati questi reperti non godono della stessa attenzione che hanno all’estero. Non è questione di nemo propheta in patria, bensì il discorso rientra nella condizione generale di disattenzione istituzionale nei confronti degli enti museali: visti come luoghi noiosi e dalla difficile comprensione, nonostante gli innumerevoli tentativi di svecchiamento, molti dei nostri istituti migliori, soprattutto in provincia, sono perennemente disabitati se non fosse per qualche scolaresca distratta o qualche addetto ai lavori. Ciò non vuol dire che non debba esserci un ritorno, ma che oltre a questo si dovrebbe lavorare per far sì che l’opinione pubblica possa capire davvero perché è così importante che un’opera torni in patria: non è solo questione di prestigio, è soprattutto questione di rispetto del contesto da cui la testimonianza proviene, perché solo così è capace di raccontare silenziosamente la sua storia al visitatore. È proprio questa la magia più grande di un reperto: quella di non essere ammirato semplicemente come oggetto ma come narratore, in un discorso collettivo che si snoda in un intero percorso museale. Oltre il feticcio, oltre il collezionismo, c’è il passato ed è per questo che si continua a scavare, ed è per questo che si continua a rivendicare il rimpatrio di opere: per riavvolgere la storia in un discorso il più coerente e comprensibile possibile.