Nel 1865, veniva pubblicato per la prima volta uno dei libri per bambini più famosi di tutti i tempi: Alice nel Paese delle Meraviglie. Ideata casualmente da Charles Lutwidge Dodgson tre anni prima, durante una gita in barca in un soleggiato pomeriggio trascorso insieme alle tre piccole sorelle Liddell, di cui una portava proprio il nome della protagonista, la storia di Alice e del suo strano viaggio è oggi conosciuta ai più grazie alle varie trasposizioni cinematografiche e soprattutto grazie all’omonimo film d’animazione del 1951 targato Disney.
Diversamente da molta della letteratura per bambini dell’epoca vittoriana, Alice nel Paese delle Meraviglie si distingue poiché appare privo di qualsiasi intento didattico e sembra mancare di una qualunque morale. Tuttavia, se lo si legge più attentamente, si comprende che il libro e il suo seguito, Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò, sono racconti alquanto complessi che trapassano la loro funzione di puro intrattenimento per ragazzi per mutarsi in vere e proprie riflessioni filosofiche, che esplorano i limiti della logica e del linguaggio, e in sottili critiche ai dettami e alla morale dell’epoca della loro composizione.
Priva di un plot reale, l’opera segue la logica del sogno, poiché, per l’appunto, si svolge in un sogno della piccola Alice la quale, mentre dorme, immagina di cadere nella tana di un coniglio e di ritrovarsi in un mondo surreale e apparentemente illogico, perennemente in metamorfosi, poiché svuotato di leggi ben fisse e razionali. Durante il suo viaggio onirico, la protagonista incontra personaggi strambi e vive avventure del tutto paradossali, cambiando continuamente la sua fisicità a seconda di quello che mangia o beve. Il Paese delle Meraviglie è un vero e proprio caos se lo si confronta al contesto vittoriano – nello scritto, incarnato dalla Duchessa per la quale c’è una morale in ogni cosa – in cui il suo ideatore ha composto il libro. Il dionisiaco andare di questo universo in cui Alice viene catapultata viene messo in risalto nel testo dall’indeterminatezza temporale della storia narrata, ma anche dall’insensatezza di molti dei giochi matematici e di parole che si trovano al suo interno. Il linguaggio gioca un ruolo fondamentale nella costruzione della a-logicità del Paese delle Meraviglie: poemetti, indovinelli, proverbi che parodiano filastrocche reali dell’epoca popolano le pagine dell’opera e rendono difficile una sua fedele traduzione.
La logica del linguaggio viene da Lewis Carroll (pseudonimo con cui Dodgson pubblicò le avventure di Alice) messa in discussione. Quello dello scrittore britannico è, infatti, un vero e proprio sperimentalismo linguistico: egli sospende le regole grammaticali, svincola il legame tra significato e significante, anzi lo inverte tanto che sono i suoni delle parole a determinare le forme delle cose e così, ad esempio, se in inglese la parola aiuola è flowerbed, letteralmente letto per fiore, allora sarà normale che i fiori che popolano questo giaciglio sonnecchino. I segni dell’alfabeto diventano semplici simboli da esplorare e combinare secondo la fantasia. I malapropismi si fanno base su cui si costruiscono i sensi degli enunciati. Il professore di Oxford crea una sorta di metalinguaggio per sottolineare i limiti e le contraddizioni della lingua fino a metterne in dubbio il ruolo di strumento d’identificazione del vero. Se nel mondo reale il linguaggio ordina, descrive le cose, nel Paese delle Meraviglie ciò non è possibile: se la lingua è molteplice, mutevole, nonsense, allora come può questo luogo avere un ordine?
Il caos semantico di Alice nel Paese delle Meraviglie diventa uno strumento per contribuire a costruire l’a-logicità del mondo immaginato, una disorganizzazione che, se apparentemente non ha altro scopo che divertire i piccoli lettori, ha in concreto il proposito di sovvertire qualsiasi visuale monolitica e chiusa della realtà, mettendone invece in risalto la sua instabilità e denunciando qualsiasi regola troppo severa che la vuole rigidamente categorizzare.