C’è chi riversa tutti i suoi dubbi e le sue paure in un diario che tiene accuratamente nascosto sotto il letto, chi le narra in un romanzo dato alla stampa, chi le racconta a un terapista o semplicemente a un amico e chi, invece, come Florence Welch, le trasforma in musica. Dopo tre anni di silenzio, la rossa londinese torna sulla scena musicale con il suo quarto album, High as Hope, rilasciato il 29 giugno 2018 e anticipato da ben tre singoli, Big God, Sky Full of Song e Hunger.
Già alle prime note, High as Hope non lascia dubbi: quella che si sta ascoltando è la nuova impresa musicale di Florence e dei suoi Machine. Le sonorità sono sempre le stesse: archi, percussioni, pianoforti, arpe, una musicalità un po’ celtica accompagnano una voce calda e potente, che in questo emergente lavoro è la protagonista assoluta. Ma se musicalmente i Florence + the Machine non sono poi così cambiati, se oltre a prestare attenzione ai suoni, si presta attenzione anche alle parole, ci si accorge che qualcosa nel modo in cui la cantante si approccia ai testi è radicalmente mutato.
Abituati all’uso metaforico che l’artista faceva dei vocaboli per raccontare i personali disagi interiori, i versi schietti, onesti, puliti delle dieci canzoni che compongono High as Hope mostrano una vera e propria rivoluzione nella poetica di questa donna che con suoi abiti fiorati e la chioma ramata sembra essere direttamente uscita da uno dei quadri preraffaelliti di Waterhouse.
In passato, Florence aveva parlato delle sue sofferenze, della perdita della nonna, della fine di un amore, ma mai così apertamente, tutto veniva filtrato da sonorità e allegorie dai toni oscuri, invece ora esterna tutto con toni chiari: se prima i demoni si nascondevano nell’ombra della mente della ragazza, ora sono rischiarati da una luce che non li sta allontanando, ma solo illuminando nel tentativo di addomesticarli in modo da farli convivere con tutto ciò che c’è di semplice e bello in quella stessa mente.
La cantautrice usa le parole dei testi come un vero e proprio confessionale, parlando apertamente del disordine alimentare di cui ha sofferto a 17 anni, di come abbia usato la musica per arrivare a una specie di estasi che la stordisse e non la facesse pensare, della sua dipendenza dalle droghe e dall’alcool e persino da quel tipo di amore che si prova per qualcuno solo perché lo si crede capace di colmare un vuoto interiore. La Florence trentenne dialoga con la sé più giovane, quella che in South London Forever beveva e stingeva le mani di estranei appena incontrati, che aveva sogni troppo grandi, che cercava di trovare la sua normalità in un mondo che le appariva estremamente disordinato, così caotico da poterlo gestire solo attraverso l’uso di acidi che le provocavano allucinazioni, capaci addirittura di rovinare il diciottesimo compleanno di sua sorella minore, Grace, a cui dedica una lunga lettera di scuse e un inno di riconoscenza e amore.
In un crescendo che da June passa per Sky Full of Song e culmina in No Choir, Florence Welch trapassa quel sottile confine che divide la musica dalla poesia e racconta la sua maturazione. Traccia il cammino che oggi l’ha resa quella che è, svela tutta la forza avuta per scappare dai comportamenti autodistruttivi che la spingevano nell’oscurità, confida all’ascoltatore quel processo interiore che le ha fatto comprendere che a sistemare la sua disfunzione interiore non potevano essere né liquori né droghe né un qualsiasi amante, che come un deus ex machina cancellasse di colpo la solitudine che la perseguitava.
Con le sue canzoni, Florence ci fa sapere che ciò che l’ha salvata è la scoperta di un nuovo tipo d’amore, quello che sta nelle piccole cose, nell’affetto per una sorella o un artista (per lei Patti Smith, a cui dedica la canzone Patricia), nella gioia di ritornare nella città in cui si è nati e ripensare alla propria fragilità giovanile, nella consapevolezza che la felicità non fa rumore, che la vita non è nei grandi eventi, ma in tutte le piccolezze che si susseguono tra essi.