Si sono conclusi, da poco più di ventiquattro ore, i ballottaggi che hanno determinato l’elezione dei nuovi sindaci di molteplici città italiane, con il tripudio – tutt’altro che sorprendente – del binomio gialloverde che già lo scorso 4 marzo aveva fatto sentire forte la sua voce e oggi guida il Paese. Un risultato piuttosto scontato, atteso da molti e sperato da altrettanti, che attesta come la finta democratica pseudo-sinistra di natura renziana abbia dato il definitivo scacco matto a una qualsiasi forma di opposizione al berlusconismo evolutosi in salvinismo puro.
Già tanto, tuttavia, si è detto in merito alla pesante débâcle del PD con i principali responsabili che, nonostante la batosta parecchio fragorosa, non accennano nemmeno minimamente a un sincero mea culpa. Non è, dunque, sul crollo delle roccaforti “rosse” che vogliamo dibattere, tantomeno sull’orgoglio del centrodestra che sbaraglia la concorrenza o sulla nomina a sua insaputa del neo Primo Cittadino di Imperia Claudio Scajola, ex ministro di Silvio e attualmente imputato con l’accusa di aver aiutato la fuga all’estero e la latitanza di un ex deputato di – guarda un po’ – Forza Italia condannato per mafia. Ciò che ci interessa, in questa sede, è interrogarci sui numeri, in particolare su quelli di cui ogni tanto si parla ma mai si discute in modo obiettivo e critico, ignorandone il significato.
Anche queste elezioni, infatti, hanno reso noto un dato che va consolidandosi nel tempo e che vede a ogni via vai alle urne sempre meno cittadini italiani esprimere le proprie preferenze in ambito politico. Ai ballottaggi di domenica, ad esempio, gli elettori che hanno apposto la propria x sulla scheda sono stati pari al 46.11% degli aventi diritto, con alcune città che hanno raggiunto addirittura percentuali minori, come in Sicilia. L’affluenza ai seggi, inutile negarlo, scarseggia di volta in volta e in modo sempre più allarmante, riducendo di fatto il consenso dei nuovi eletti. Ma perché?
Per Costituzione, sappiamo che il voto è personale ed eguale, libero e segreto, un diritto ma anche un dovere civico. Eppure, quasi un elettore su due, a volte anche di più, preferisce ormai con consapevolezza e costanza non scegliere il proprio rappresentante, subendo passivamente la decisione di qualcun altro. Dalle amministrative alle politiche, chi vince sembra contare soltanto per quei pochi che non si sono fatti contagiare dallo scetticismo generale, spesso per un proprio tornaconto personale (soprattutto a livello cittadino e regionale, quando sono tanti gli amici di…).
L’assenza di un assetto democratico concreto, dove l’opposizione non esiste e l’inciucio è ormai la regola, ha portato al proliferare di diserzioni elettorali. Anni di mala politica, corruzione, malaffare e imbarazzo internazionale, poi, hanno contribuito ad accrescere il numero di persone che ha smesso di credere nella possibile buona fede di coloro che si candidano, che promettono e il più delle volte non mantengono, di coloro che, poi, concretamente finiscono per preservare solo se stessi. Ma chi sono queste persone che non votano? Da che parte stanno?
Difficile dare delle risposte corrette e sempre valide. Nonostante non votino da anni e siano in tanti, infatti, gli astensionisti sono sempre rimasti piuttosto anonimi, chiusi nella loro protesta silenziosa, tutt’al più dichiarata sui social. Mai compattatisi e mai riunitisi sotto un’unica nuova bandiera o nel nome di un ideale a cui ridare vigore, fin troppo spesso quelli che non si recano alle urne scelgono di restare fuori dal dibattito politico, quantomeno in sedi opportune e, teoricamente, decisive. Tuttavia, se si analizza lo stato attuale del Paese, la deriva che ormai sta prendendo e i risultati di ogni competizione, farsi un’idea sull’ideologia scettica non sembra così difficile.
Di fatto, stando ai numeri, pare che siano soprattutto gli elettori di sinistra ad astenersi, giustamente nostalgici di un qualcosa che in Italia manca da almeno trent’anni. Elettori che, di certo, non sono rappresentati dal Matteo toscano, tutto banche e cattiva scuola, dal suo prestanome Martina o dagli uomini e le donne più a sinistra del PD ma, come in uno specchio, a esso liberi e uguali. Comprendere lo spaesamento, dunque, è davvero il minimo, ma accettarne i termini un po’ meno.
Che senso ha, infatti, farsi portatori di una protesta che, nel concreto, si tramuta in una lavata di mani? Che senso ha decidere di non scegliere per poi non proporre mai un’alternativa? Da chi o da cosa sperare in un progetto nuovo? Se a mancare – come manca – è la sinistra, perché non provare a crearne una nuova? Qualsiasi azione e, soprattutto, qualsiasi reazione, di certo, avrebbe più efficacia del nulla che si sta costruendo in questi anni, silenziosamente complice di un ricompattamento importante di una destra che allo stato attuale sta dettando legge in Italia e non solo.
Che i politici che, ahinoi, ci hanno rappresentato a lungo abbiano messo a tacere ogni speranza per l’oggi come per il domani è innegabile. Che il Partito Democratico, chi lo ha incarnato come chi lo ha seguito ciecamente abbia determinato la fortuna dei 5 Stelle e, per assurdo, dello stesso Salvini pure. Tuttavia, nonostante gli ultimi anni, il fattore Matteo, le scelte scellerate e il sacrificio della classe media abbiano autorizzato il voltagabbana di molti che non ce l’hanno fatta più a sentirsi bistrattati, abbandonati e senza una guida, addirittura spingendosi a destra persuasi da un vaffa gridato con convinzione, non è pensabile fermarsi qui, lasciarli fare, indignarsi ma non reagire. Perché loro, gli altri, i “nemici”, persino gli incostituzionali, stanno agendo e anche piuttosto rapidamente. Stare a guardare, dunque, rischia di diventare soltanto consenziente approvazione di un presente che non farà attendere le sue conseguenze.
La sinistra, ci hanno insegnato, è rivoluzione, ma se questa latita, soprattutto negli ideali, in cosa stiamo credendo?