Il Sebeto era un fiume che accarezzava Napoli e scomparso misteriosamente per un giallo che ancora resta sospeso tra storia e mito. In effetti, oggi sembra difficile immaginare un fiume che scorre tra via Delle Brecce, l’Arenaccia, via Foria, Piazza Cavour, via Pessina, Piazza Municipio, così come sembra incredibile pensare che il Ponte della Maddalena sia stato effettivamente un ponte sospeso sul Sebeto che proprio lì aveva la sua foce. Sta di fatto, però come scrive Antonio Emanuele Piedimonte nel suo Napoli, che il fiume era molto noto e che alla fine dell’Ottocento sulle sue sponde si fittavano i lidi per i bagnanti, così come nei primi anni del Novecento veniva raffigurato sulle cartoline postali ed era anche frequentato dalla camorra che faceva pagare il pizzo anche per consentire il semplice abbeveraggio dei cavalli. Gli abitanti più anziani dei quartieri orientali della città ne conservano ancora oggi il ricordo, eppure una cosa è certa: in tempi non troppo lontani, mentre Napoli si deformava sotto la spinta del cemento, dell’asfalto e dell’edilizia selvaggia, il fiume era già sparito.
Ma dove nasceva il Sebeto? Piedimonte scrive che due sono le ipotesi principali: la prima conduce ai sotterranei della Chiesa di Santa Maria del Pozzo a Somma Vesuviana, con le indicazioni di Giovanni Antonio Summonte nel 1675, il quale ha riportato le antiche memorie degli abitanti del paese. La seconda, sostenuta da Ambrogio Leone nel 1514, indica come possibile sorgente una zona del Nolano. Altri pareri, infine, riportano che potrebbe esserci una sovrapposizione con le sorgenti della Bolla (Volla) e le altre acque che dal Vesuvio e dal Monte Somma scendono verso il mare.
Cosa significa il nome Sebeto? Era davvero povero d’acqua ma ricco per gran fama come scrisse il Giannettasio nel suo Piscatoria et Nautica del 1685, oppure era così abbondante da poter far girare i mulini, come raccontò il Celano, e quindi anche in grado di accogliere i primi bagnanti e i numerosi pescatori di anguille Sebetie cucinate e gustate nella famosa Taverna delle carcioffole raccontata dal Giustiniani nel suo Dizionario grafico ragionato del Regno di Napoli del 1816? I nomi Rubeoloe Ribium, usati in passato, indicavano lo stesso corso d’acqua ma in epoche diverse o si trattava di un altro fiume? Ancora oggi si fa fatica a trovare delle risposte. La mancanza di queste informazioni fece nascere polemiche già nel Settecento con due studiosi che si “fronteggiarono” sull’argomento. Antonio Vetrano era certo che questo importante corso d’acqua esistesse davvero; Giacomo Martorelli, invece, sosteneva che si trattasse di una specie di rigagnolo sconosciuto agli storici antichi. Una divergenza di vedute, ci tiene a ricordare il Piedimonte, che anche in passato si era palesata come riportò il professor Giorgio Mancini nel volume Sepeitos, misterioso Sebeto.
Giovanni Boccaccio fu uno dei primi a sollevare dubbi sull’esistenza del fiume: Il Sebeto come taluni affermano, è il fiume presso Napoli in Campania, che io non ricordo di aver visto, tranne che si tratti invece di quel rivolo che scorre nelle paludi tra le falde del monte Vesuvio e senza nome s’immerge nel mare presso Napoli, né tantomeno vi si trova altro corso d’acqua, ma neppure rimangono segni. Lo scrittore, molto probabilmente, non ebbe modo di cercare le tracce del fiume dato che, proprio in quel periodo, era forse parzialmente interrato per colpa di terremoti, eruzioni e maremoti che hanno sempre contraddistinto la storia della città.
Fu Petrarca, invece, a essere testimone di un disastro che devastò Napoli il 25 novembre del 1343 di cui raccontò in una lettera all’amico Francesco Colonna, la terribile tempesta: Lo mare feo montagne de acque… non vi fu nave che potesse resistere e percotendosi tra loro si fracassarono come morte di tutti i marinai… […] … il mare dopo ore otto tornossene nel suo letto, lasciando interrato il porto di mezzo con una distesissima piaggia attorno, in cui le arene alluviate giunsero a quasi 8 braccia d’altezza, di talché alcune case, che erano presso del porto, ed al di là dell’Acquaro rimasero talmente interrate nell’arena, che le genti vi entravano ed uscivano per le finestre.
Secondo Carlo Celano, racconta ancora il Piedimonte, fu proprio il maremoto del 1343 ad aver sconvolto il corso del fiume, trascinandolo nel sottosuolo. Ipotesi sicuramente suggestiva, ma smontata dall’ingegnere e speleologo Clemente Esposito che negli ultimi anni del Novecento ha condotto lunghe verifiche nel sottosuolo della zona. Sicuramente, i problemi per il Sebeto cominciarono con la grande eruzione del Vesuvio del 79 d.C. a seguito della quale sarebbe avvenuta la divisione del fiume in due rami, uno dei quali prenderà il nome di Rubeolo. Eruzioni, terremoti e maremoti sembrano aver contribuito quindi a rendere sempre meno ricco l’antico Sebeto, probabilmente, modificandone il corso. Antonio Piedimonte scrive che nel tratto più cittadino, tra le attuali via Foria e via Pessina, il corso d’acqua si incontrava con le acque provenienti dal canalone costruito da via Salvator Rosa e dalla lunga gola di via Francesco Savero Correra – il Cavone –, che raccoglievano le acque dei Camaldoli, dell’Arenella, e dai canyon della Sanità dove confluivano quelle di Capodimonte e Materdei. Proprio questi ultimi creavano la “lava dei Vergini”, un’alluvione che per secoli ha devastato le case, i negozi, ma soprattutto gli ipogei greco-romani e che si neutralizzò nel 1960 quando il Sindaco Achille Lauro fece costruire il collettore delle colline che permise di incanalare le acque.
Nel Novecento, poi, la zona delle vecchie paludi e del Sebeto fu scelta per costruire il Centro Direzionale: Il simbolo del peggiore modernismo ha interrotto il flusso di antichissime acque, l’isola di cemento galleggia sulle paludi, ultimo oltraggio al Sebeto, scrisse Bruno Brillante. Le tracce di questo fiume sono racchiuse in epigrafi, fontane, sculture, dipinti, antiche mappe, cartoline postali e in descrizioni letterarie del passato. Tuttavia, ciò che è sopravvissuto del Sebeto non sono altro che putridi e fetidi rigagnoli gonfi di veleni industriali, scarichi organici che scorrono tra le fabbriche abbandonate, l’arrugginito labirinto delle raffinerie, le campagne inquinate e tutto il degrado dei quartieri orientali di Napoli.