Contributo a cura di Samantha O. Storchi.
“Per molto tempo mi sono coricato presto la sera”. Si apre con parole semplici e altrettanto misteriose il primo volume della À la recherche du temps perdu di Marcel Proust. Il lettore è subito proiettato all’interno di un universo misterioso, vago e indefinito: quello dell’autore che ricorda. Una stanza buia, uno stato di incertezza che non è il sonno ma nemmeno la veglia. Il piccolo Marcel dubita persino di se stesso, si trova in un profondo stato confusionale, è profondamente sconvolto. A un certo punto, però, recupera le nozioni frammentarie, le riunisce e le confronta. Riesce a identificare il luogo in cui si trova, anche se la memoria ormai si è messa in moto e lo riporta in altri luoghi, in altre camere, in altri tempi.
Da questa prima rievocazione notturna prende il via la storia dell’autore attraverso i sette volumi che compongono la Recherche. A partire dalla prima rievocazione del passato, in tutta l’opera, non esiste passione che non sia stata provata, non esiste sofferenza che non sia stata patita, non esiste oggetto che non sia stato contemplato. Le fantasticherie di un adolescente, la gelosia di un innamorato, i moti del cuore e tanto altro, entrano a pieno titolo nel romanzo che vuole salvare dall’oblio il tempo perduto. Il passato è una serie di eventi vissuti, finiti. Ma anche una serie di luoghi, i luoghi della nostra vita che il tempo ha distrutto irreparabilmente. Sembra che sia fatica inutile cercare di evocarlo in quanto tutti gli sforzi della nostra intelligenza sono vani: ciò che morto è morto per sempre. Tuttavia, nonostante ciò, c’è l’idea della resurrezione. Il nostro passato rappresenta un tesoro che può essere recuperato dalla memoria, ma non da quella volontaria, bensì da un’altra memoria, quella specie di incantesimo che si produce casualmente e che suscita “l’intero edificio del ricordo”.
Nelle prime pagine della Recherche, il narratore ricorda che – rientrando in casa durante una gelida giornata d’inverno – la madre gli offre una tazza di tè accompagnata da una madeleine. Il trasalimento arriva inaspettato. “Un piacere delizioso mi aveva invaso, isolato…”. Marcel si è, in un sol colpo, estraniato dal mondo. Non riesce a capire subito da dove proviene quella gioia e inizia a interrogarsi, cercando di risalire alla causa. Si rende conto ben presto, però, che la verità che sta cercando non è nel gesto inconsapevole, non è in quella tazza di tè. Il sapore e l’odore gli hanno restituito qualcosa del suo passato, qualcosa che credeva di aver dimenticato per sempre: la domenica mattina, a Combray, a casa della amata zia Léonie. In questa occasione, Proust non riuscirà a comprendere a pieno tutte le possibili conseguenze della sua scoperta, ma il lettore attento è già in grado di intuire, poiché l’autore l’ha già dimostrato, che soltanto la memoria involontaria è capace di salvare il passato dall’oblio del tempo.
Come sottolinea Walter Benjamin nel saggio Baudelaire e Parigi: “…si può considerare l’opera di Proust come il tentativo di produrre artificialmente l’esperienza come intesa da Henri Bergson”. Marcel Proust, infatti, trae ispirazione dal concetto della durata bergsoniana. È importante, però, sottolineare le affinità e le divergenze che le ricerche di Bergson presentano in rapporto all’opera proustiana del tempo e della memoria.
Proust può rivivere il passato come un presente potenziale, la cui traccia, andata a nascondersi in un angolo lontano del nostro spirito, non si sarebbe effettivamente mai cancellata dalla nostra memoria. Il passato non solo esiste, ma è attuale, vivo e presente. Nonostante ciò, l’autore della Recherche, non si sottrae dal criticare il filosofo francese. Per Proust, il procedimento descritto da Henri Bergson è una questione di libera scelta, mentre per lui non è così. Nella memoria involontaria il passato è tutto raccolto e noi lo ritroviamo come in un eterno presente. L’idea di Bergson della durata continua è contraddetta dal pensiero proustiano, discontinuo e intermittente. Per il filosofo francese l’unità della coscienza è stabilita fin dall’inizio, nella Recherche, invece, è il risultato di una conquista.
Possiamo ritrovare tutte le nostre emozioni e tutti i nostri ricordi, rimasti sepolti nel fondo del nostro inconscio sotto forma di impressioni svanite, grazie ad alcuni richiami occasionali, come il sapore della madeleine intinta nel tè. Fino a quel momento, infatti, la modalità del ricordo con cui si era offerta al suo pensiero la città di Combray era assai povera. Prima che il sapore della madeleine lo cogliesse, in quel freddo pomeriggio d’inverno, il ricordo di Proust era limitato a ciò che gli aveva proposto la memoria volontaria. Tuttavia le informazioni che questa ci fornisce sul passato non sono complete: ricordiamo il passato grazie a dei punti di riferimento. Nella memoria involontaria, invece, il sorgere del ricordo è imprevedibile. Si tratta di una memoria gremita di vuoti, diversa dalla memoria volontaria che ci restituisce del passato solo aspetti senza verità, rappresentazioni inesatte che non assomigliano alla realtà. La memoria proustiana è più viva, più sentita perché non sollecitata, meravigliosa perché sottratta al tempo, fatta di sensazioni furtive che sanno ridarci il nostro passato e introdurlo nel presente con letizia e stupore.
La Recherche diventa, dunque, un perenne disseppellimento dei momenti più felici e involontariamente richiamati. Il passato si nasconde “fuori del suo dominio e della sua portata, in qualche oggetto materiale che noi non supponiamo. Questo oggetto, dipende dal caso che noi lo incontriamo prima di morire o che non lo incontriamo”. È affidato al caso che l’individuo acquisti un’immagine di se stesso.