A metà dello scorso mese, la famosa agenzia di rating Fitch ha confermato per l’Italia la valutazione “BBB”, ma ha avanzato perplessità per il futuro prossimo dell’economia del Bel Paese, dopo i risultati del voto del 4 marzo che hanno complicato il quadro politico e la possibilità di formare un governo che dia stabilità economico-sociale alla nazione. Dopo questi puntuali interventi “esterni”, però, nasce spesso la domanda: chi controlla i controllori?
Le agenzie di rating, in effetti, sono società che osservano le dinamiche geopolitiche ed economico-finanziarie mondiali per poi assegnare una valutazione e commentare l’andamento delle varie economie statuali, fornendo “indicazioni” sulle possibilità di investimento e sulle difficoltà future. Le più famose sono la Standard & Poor’s e la Fitch Ratings. Quest’ultima, nel sottolineare la preoccupante frammentazione politica italiana, ha descritto, tuttavia, un andamento economico positivo di lungo periodo, con una ripresa economica superiore alle attese e un PIL (Prodotto Interno Lordo) stimato in crescita anche per il prossimo anno. E gli investimenti e i consumi privati, anch’essi in salita, dovrebbero mantenere il trend favorevole, sempre ammesso che vi sia una “governance” politica stabile e durevole nel tempo.
Da molti anni, diversi osservatori e analisti delle dinamiche sociali e politiche sospettano che questi prestigiosi istituti più che valutare lo stato delle cose cerchino, invece, di influenzare le decisioni governative degli Stati, a tutto vantaggio delle reti del potere economico e finanziario mondiale di cui indirettamente fanno parte. Soprattutto da quando, alla fine del primo decennio del secolo, queste agenzie, teoricamente autonome nell’operato e nel giudizio, non si accorsero della “bolla finanziaria” che avrebbe portato, dal 2008 in poi, al fallimento di alcuni giganti bancari e societari americani, da loro valutati in positivo, generando la spirale di una grave crisi economica planetaria.
Non pochi studiosi di scienze sociali hanno evocato il fenomeno della self fulfilling prophecy (profezia autoverificantesi), definita da studiosi del calibro del sociologo americano Robert K. Merton, soprattutto nell’opera Teoria e struttura sociale (edizione italiana: Il Mulino, 1971), come una previsione che si realizza per il solo fatto di essere stata espressa, in un rapporto “circolare”, nel quale la profezia genera l’evento e quest’ultimo verifica la previsione.
In breve, se un istituto prestigioso o addirittura un organismo dello Stato valuta, in positivo o in negativo, un fenomeno economico e sociale in atto, questo stesso “giudizio” influenza in maniera determinante le scelte nel campo delle politiche pubbliche e, alla fine di questo a dir poco artificioso procedimento, la profezia si avvera nel senso previsto – o programmato? – da istituzioni che dovrebbero analizzare e valutare, al di sopra delle parti in gioco, l’andamento delle dinamiche finanziarie e delle loro ricadute sociali, il futuro economico e politico degli Stati nazionali e, soprattutto, la vita individuale, familiare e sociale dei cittadini dell’intero pianeta.