Nel tempo e nello spazio contemporaneo, dominato dalla condivisione online affidata ai social network, la regista ungherese Ildikó Enyedi ci mostra, con il suo film Corpo e anima – vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino 2017 – cosa potrebbe accadere se due persone condividessero quella parte nascosta di loro, indeterminata e ambivalente, che chiamiamo sogno.
La trama dell’opera ci porta nell’ambiente di un macello industriale alla periferia di Budapest, dove i corpi inermi dei bovini sono abbattuti, sezionati e catalogati con etichette di poche lettere e alcuni numeri, che determinano il loro valore di mercato nella catena giornaliera della produzione, commercializzazione e consumo alimentare. Altri corpi si occupano di questo triste lavoro, in maniera asettica e ripetitiva: sono quelli degli operai e degli impiegati, che soltanto nel poco tempo libero (o morto) della giornata lavorativa condividono la bevuta di un caffè o il pranzo consumato in fretta, riuscendo a scambiare, quasi sempre con insofferenza, qualche battuta sulle poche gioie e i tanti problemi delle loro vite.
Un giorno, arriva Maria (interpretata dalla brava Alexandra Borbèly), ispettrice del controllo sulla qualità, e la sua riservatezza che rasenta l’asocialità, unita alla pignoleria professionale, la rendono subito un corpo alieno, se non ostile, all’interno del gruppo di lavoro. Soltanto Endre (interpretato da Gèza Morcsànyi), che ha un ruolo direttivo nell’organigramma societario, cerca di socializzare con lei e di farla partecipare alle relazioni umane nella comunità industriale.
Quando arriverà anche una psicologa a intervistare tutti, per redigere i profili professionali all’interno dell’azienda, i due impiegati, da così poco tempo compagni di lavoro, verranno chiamati a dare spiegazioni intorno a un fenomeno inaspettato o forse, come penserà la giovane studiosa, soltanto a uno scherzo irritante. Maria ed Endre descriveranno lo stesso sogno ricorrente: due cervi, maschio e femmina, che si incontrano e si uniscono nella silenziosa natura di un bosco innevato.
La “rivelazione” sconvolgerà i due protagonisti che conducono una vita privata solitaria. Tra incredulità e malcelata speranza, cominceranno a raccontarsi quotidianamente il loro sogno “condiviso” e scopriranno le proprie affinità sentimentali e soprattutto il desiderio di amare e di essere amati che pensavano di aver perso per sempre. Alla fine, entrambi troveranno il coraggio di cercare di realizzare ciò che forse la loro anima ha deciso nel far incontrare e unire le loro esistenze.
Poco conosciuta al grande pubblico, la sceneggiatrice e regista ungherese, che da esordiente, con il suo film Il mio XX secolo, vinse la Camera d’Or al Festival di Cannes di diversi anni fa, racconta una storia d’amore attraverso un’opera che ci fa riflettere sulla solitudine e sulla mancanza di cura della rete degli affetti che caratterizzano le relazioni interpersonali nella società contemporanea.
Con buona pace del dualismo filosofico a cui siamo abituati – e che richiama il rigido codice binario del “sì/no” o del “mi piace/non mi piace”, questa favola cinematografica sembra volerci dire che corpo è anima per gli esseri umani, anche in un mondo razionalizzato e malato di efficientismo e di produttività, dove i sentimenti costituiscono un sintomo di debolezza e l’amore è vissuto come un “difetto di produzione”, al tempo della “Fast Life” e della condivisione digitale.