La sera del 7 ottobre 1989 svariate centinaia di persone si radunarono nel centro di Berlino per sgranchirsi un po’ le gambe. Rivendicavano il diritto di passeggiare senza muri fra i piedi.
Alex è la pagina di un sussidiario che nessuno stampa, il nome della storia che a scuola non si insegna, un Novecento che ci convincono sia finito insieme alla guerra. Alex è un presente sbagliato che trova le sue spiegazioni in un mistificato passato recente, una piazza al centro dell’Europa, un modo di essere che non si rinnega. Chiunque abbia visitato Berlino almeno una volta nel corso della propria vita sa bene a cosa facciamo riferimento.
È il 9 novembre 1989, il fracasso procurato da un muro che si sgretola, Alex è il protagonista di un film che commuove, appassiona e diverte. Parliamo di Good bye, Lenin!, una commedia drammatica del 2003 del regista tedesco Wolfgang Becker che, con leggerezza, ironia e semplicità ci riporta nella Germania appena riunificata all’indomani della caduta del Berliner Mauer e della fine della DDR.
Christiane Kerner vive a Berlino Est con i suoi due figli – tra cui Alex – quando il marito la lascia sola per scappare a Ovest. Dopo un lungo periodo di depressione da abbandono, si dedica anima e corpo al partito, convinta che il suo sia il miglior Paese al mondo, pur non risparmiandosi da talune critiche. A pochi giorni dal quarantesimo anniversario della Repubblica Democratica Tedesca, però, assiste al pestaggio e all’arresto del secondogenito durante una protesta contro il regime. Una scena che le provoca un dolore tale da causarle un infarto e un conseguente coma che dura abbastanza mesi – otto – da farla risvegliare in un contesto totalmente mutato, lontano ormai da quello nel quale si sentiva confortata.
Il comunismo, dicono, è stato sconfitto. Il bronzo di Lenin, in una delle scene più belle e sicuramente più toccanti del film, portato via da un elicottero, vola come un palloncino che si spinge in alto, verso il sole, in un desolante moto, un senso di perdita enorme per chi resta. Il capitalismo, irrispettoso, balla sui resti dell’epoca rossa e su quelli di chi ci ha creduto, di chi l’ha voluta, di chi non può immaginare una vita diversa, di chi per quella uguaglianza ha perso un po’ di libertà. Ma anche di chi l’ha solo subita. La più grande illusione nonché menzogna della storia, quella dell’equazione America uguale democrazia, ha ufficialmente inizio. La dittatura a stelle e strisce, meglio nota come occidentalizzazione, si impone anche a Est.
Il cuore di Christiane, intanto, resta debole. Per i medici, infatti, la donna non può subire alcun trauma se non vuole rischiare uno scompenso cardiaco fatale. Da questo momento una serie di episodi tragicomici si sussegue sulla scena, generando un sorriso dolceamaro sul volto dello spettatore. Alex decide di non rivelare a sua madre quanto sta accadendo al di là delle pareti di quell’ospedale che l’ha vista supina per un periodo troppo lungo e che si protrarrà ancora una volta dimessa. Riportandola a casa, quindi, il figlio ricostruisce per lei una camera uguale a quella degli anni della dominazione russa e, con non poche difficoltà, tenta di nasconderle ogni tipo di cambiamento in atto, un cambiamento repentino e invadente, senza preavviso alcuno. Al giovane spetterà il duro compito di fermare il tempo, rigirare la clessidra, eternare un’utopia.
Quel giorno mentre fissavo le nuvole, mi resi conto che la verità era qualcosa di estremamente vago che potevo facilmente adattare all’abituale percezione del mondo che aveva mia madre.
Wolfgang Becker, in una pellicola di appena due ore, ci porta in una Berlino, usurpata prima e tradita poi, nella morsa di un instabile divenire, e lo fa con disarmante naturalezza e coscienza critica. Senza schierarsi nettamente, senza condizionare colui che guarda, senza necessità di imporgli una visione – o revisione – di una storia che, con i tempi che corrono lo abbiamo capito, è meglio non raccontare, non far sapere. Il regista trasforma in episodi divertenti il sogno di un comunismo che così umano – almeno al potere –, forse, non lo è mai stato ma che, al contrario di quanto vogliono farci credere, è possibile. Un comunismo che unisce e aiuta a vivere, che crea una società migliore di, con e per persone migliori. Un’ideale collettività che manca a chi non ha potuto prendervi parte ma, soprattutto, a chi lo ha fatto – più o meno spontaneamente – e che oggi avrebbe preferito indossare i panni di Christiane, vesti ignare di essere ormai fuori moda. È un sentimento struggente, i tedeschi lo chiamano ostalgia, è la nostalgia dell’Est. È la consapevolezza che a Ovest non si sta meglio, si conta poco, molto poco. Si è il numero di serie di un telefono all’ultimo grido, un caffè lungo, una ciambella dozzinale, l’ingranaggio intercambiabile di una catena di montaggio. Si è sfruttati e sottopagati, sviliti nella propria dignità nel nome di una finta democrazia e di una ancor più finta libertà.
Devo ammetterlo, ormai il gioco mi aveva preso la mano. La Repubblica Democratica che stavo creando per mia madre, assomigliava sempre più a quella che avrei potuto desiderare io.
Probabilmente, a quella che avremmo potuto desiderare tutti. E che ancora vorremmo: una repubblica veramente democratica, alla ricerca di un’alternativa all’insensata lotta per la sopravvivenza a cui si ispira il sistema capitalista, desiderosi di un mondo che rifiutando il carrierismo sfrenato e la schiavitù del consumismo, metta nel dovuto risalto i più autentici valori dell’umanesimo. Una società ben lontana dalle (il)logiche dittatoriali a Ovest di un sogno proibito.
Care concittadine e cari concittadini della Repubblica Democratica Tedesca, chi come me ha avuto la fortuna di ammirare il nostro piccolo pianeta azzurro dalle lontane profondità dello spazio ha uno sguardo diverso. Perché da lassù, negli spazi interstellari la vita degli esseri umani appare piccola e insignificante. E viene da chiedersi: dove stiamo andando? Quali sono i nostri obiettivi? E quali le nostre conquiste? Oggi compiamo quarantun’anni. Un millesimo di secondo in relazione all’universo. Ma per noi quest’ultimo anno ha avuto il valore di un intero secolo. I nostri nemici di un tempo vivono ora al nostro fianco, sono i nostri vicini di casa. Questo non è certo il migliore dei Paesi, ma i valori in cui crediamo continuano a entusiasmare uomini e donne di tutto il mondo. Spesso abbiamo perso di vista i nostri reali traguardi, è vero. Ma ora ne siamo coscienti. Il socialismo non è nato per innalzare muri. Socialismo significa tendere la mano agli altri e insieme a essi convivere pacificamente. Non è il sogno di un visionario, ma un preciso progetto politico. Ed è per questa ragione che oggi dichiaro aperte le frontiere della Repubblica.