È la notte di Halloween, tra il 31 ottobre e il 1 novembre 2021. Come in tante altre città d’Italia, a Bari è stata organizzata una festa per celebrare la notte più spaventosa dell’anno. Ma i veri mostri, quella notte, sono molto diversi da demoni e spiriti maligni che infestano il giorno dei morti. Una ragazza di sedici anni, che chiameremo Marta, è lì a festeggiare con i suoi amici quando inizia a sentirsi poco bene. Per fortuna, quella fortuna un po’ maledetta che sembra ti salvi e invece ti condanna, a eventi così grandi è sempre richiesta la presenza di un’ambulanza, per sicurezza. I suoi amici la scortano fino al veicolo d’emergenza e la affidano alle cure di un paramedico volontario. L’uomo accoglie Marta, la fa entrare e poi chiude la porta del mezzo.
I suoi amici restano lì fuori, un po’ confusi, in attesa, perché Marta non si sente bene e loro sono preoccupati. La loro preoccupazione aumenta, perché l’ambulanza è chiusa e nessuno esce con alcuna informazione sullo stato di salute della loro amica. Marta non uscirà per le successive due ore. Due ore in cui qualcuno approfitterà del suo momento di grande fragilità e della fiducia che spontaneamente si dà a un medico o a un infermiere. Ma non è ingenua, non è immatura, non è irresponsabile Marta che entra in quella ambulanza e si affida alle cure di un uomo il cui dovere è assisterla. Quando lui la seda abbastanza perché lei non possa chiamare aiuto ma non troppo da renderla completamente incosciente e la violenta per due ore sulla sua ambulanza, non è di Marta la colpa, perché l’unica colpa che lei ha è quella di essere donna.
Il racconto di Marta, che si è spontaneamente recata dai carabinieri, è stato trovato credibile e il paramedico è stato messo agli arresti domiciliari. Scossa, ma lucida, non ha lasciato spazio a dubbi. Una ritrovata, seppur insipida, giustizia che non tutte le donne vittime di violenza riescono a ottenere. Ho trovato la sua storia una sintesi perfetta – o terribilmente imperfetta, a seconda dei punti di vista – del motivo per cui bisogna ricordare la giornata internazionale dei diritti della donna, quell’impropria festa della donna che ogni 8 marzo ci fa chiedere cosa ci sia da festeggiare. È solo un caso, potrebbe pensare qualcuno, una sola cosa terribile accaduta a una povera donna, e non si tratta certamente di un esempio rappresentativo. Ma non è così. Quello che è successo a Marta è molto più reale di quanto si possa immaginare. Quello che è successo a Marta succede a troppe donne.
In Italia, si stima che il 3% delle donne tra i 16 e i 70 anni abbia subito una violenza sessuale (dati ISTAT), che tradotto in numeri significa che ci si aggira intorno alle 600mila donne. A questa stima si aggiunge un ulteriore 3.5% di donne che hanno subito una tentata violenza sessuale. Numeri spaventosi di cui non abbiamo realmente contezza. Il seguente sarà un ragionamento improprio dal punto di vista statistico, ma che serve a comprendere le dimensioni del problema: se conoscete almeno cento donne tra i 16 e i 70 anni – e le conoscete, fate una somma delle compagne di classe di tutte le scuole, delle colleghe, di qualche amica d’infanzia e dei parenti – allora conoscete almeno tre donne che sono state violentate. Tre donne che conoscete, con cui parlate, che hanno subito una violenza sessuale.
Il ragionamento è improprio perché le violenze sessuali – così come tutte le disparità di genere – si abbattono diversamente su donne di differenti estrazioni sociali, poiché anche in questo caso è sulle persone più svantaggiate e più indifese che si riversa il peso dell’ingiustizia. Ma non sono solo questi i parametri da tener presente. Il motivo per cui ho scelto di raccontare la storia di Marta in occasione dell’8 marzo è che ciò che è successo a lei potrebbe accadere a ognuna di noi, senza distinzione di ceto, razza o estrazione. Per le strade, alle feste, a lavoro, e anche la presenza degli amici più fidati non è una garanzia di salvezza, a quanto pare. Soprattutto, quello che è accaduto a lei terrorizza ogni donna, ogni giorno.
Qualcuna non ci pensa, come meccanismo di difesa. Qualcuna pensa che le probabilità che accada proprio a lei sono troppo basse per perderci il sonno. Qualcun’altra, invece, è spaventata ogni volta che prende la metropolitana di sera. Ma ognuna convive con il terrore di quella possibilità. Quella di affidarsi alle cure di un professionista in un momento di fragilità e debolezza e finirne vittima. Quella di percorrere una strada isolata alla quale non esistono alternative e ritrovarsi aggredita da uno sconosciuto. Quella di essere impotente contro un abuser che si procura il potere attraverso la sopraffazione.
La parità di genere è una meta a cui tutti dovremmo aspirare, ed essa è composta di tante cose, di tanti dettagli della vita quotidiana delle donne imposti automaticamente dalla società che vanno completamente destrutturati. Se manca la parità salariale, se manca un’equa distribuzione del lavoro di cura o un equilibrio tra congedi di maternità e paternità, se manca la giustizia, difficilmente la violenza finirà. Ed è chiaro che si tratta di cambiamenti strutturali e culturali che richiedono molti anni per essere completati – anche se si potrebbe certamente fare più di così – ma quella della violenza di genere è un’emergenza, e alle emergenze non si può chiedere di aspettare decenni. Perché le donne muoiono ogni giorno, vengono sfruttate e abusate ogni giorno, e ogni occasione sprecata rappresenta una vita spezzata.
Quando si parla di violenza sulle donne, non solo fisica e sessuale, ma anche verbale e spesso morale, e quando si sottolinea la condizione di costante e inaccettabile paura in cui le donne vivono anche oggi, ciò che parte quasi in automatico è il coro dei not all men. Si tratta di un’affermazione, che mi aspetto di leggere soprattutto l’8 marzo e il 25 novembre, utilizzata in risposta a prese di posizione contro la violenza sulle donne da parte di chi ci tiene a ricordare che non tutti gli uomini sono stupratori.
Quando mi capita di imbattermi in affermazioni del genere non riesco a fare a meno di pensare che è assurdo quanto possa apparire surreale e distante una condizione che non si vive sulla propria pelle. È assurdo che alcuni uomini si sentano accusati solo perché qualcuno racconta le proprie esperienze di violenza e prende una posizione contro gli uomini che picchiano, stuprano o umiliano le donne. Vorrei dire loro che ci mancherebbe, che per fortuna non sono tutti gli uomini, e che tutti quelli che non lo sono non dovrebbero chiedere un premio o il diritto di affermare di volere un riconoscimento, perché queste sono le basi del vivere comune in una società di questo secolo. Ma quando gridano not all men vorrei che capissero che, se anche non sono certamente tutti gli uomini, tutti gli uomini potrebbero esserlo.
Non fraintendetemi, non sto dicendo che ogni uomo ha un potenziale violento inespresso, sebbene sia chiaro che l’enorme diffusione della violenza di genere non dipenda esclusivamente da chi la pratica ma anche dall’apparato culturale in cui ognuno di noi cresce. Ciò che intendo dire è che quando sono per strada e la via che percorro diventa meno affollata, e magari la strada si stringe e la luce passa più difficilmente tra i palazzi e non ci sono finestre e nessuno mi sentirebbe se urlassi, in quel momento ogni uomo che passa mi fa paura, perché ognuno di loro potrebbe essere quel cattivo che ogni donna ha il terrore di incontrare almeno una volta sulla sua via. Chiunque può essere quel paramedico agli occhi di una donna sola che si sente indifesa e non può fidarsi di nessuno.
Ecco, se ogni donna ha paura di camminare per strada, se ogni uomo che passa le fa temere un pochino di più che possa accadere anche a lei, c’è un’evidente disfunzione nella nostra società. C’è un problema che, mentre giustamente parliamo di disparità salariale e di equa rappresentanza, fa temere le donne per la propria incolumità. C’è un problema più grande che non stiamo facendo abbastanza per destrutturare. Ai pugni che picchiano, alle mani che strozzano, ai corpi che rubano, che prendono senza chiedere, non si può lasciar fare, perché intanto le donne perdono la vita, in un modo o nell’altro.
La soluzione, per la nostra classe politica, pare sempre quella di aumentare le pene. Come se chi commette una violenza o un femminicidio si mettesse a calcolare costi e benefici e decidesse che per dieci anni ne vale la pena però per dodici no, è un po’ troppo. Gli interventi strutturali, le decisioni che davvero cambierebbero qualcosa, invece, difficilmente trovano spazio nel dibattito pubblico. E, anzi, anche i diritti trovano difficilmente spazio, pure nella giornata dedicata ai diritti delle donne.
Parlare di diritti, lavorare per ottenerli, è importante, anzi è fondamentale, e andrebbe fatto ogni giorno, non solo durante occasioni come quella di oggi. Oggi, forse dovremmo pensare a cosa comporta per le donne, per gli individui e le loro vite, non averli ancora ottenuti tutti. L’8 marzo non è una festa, a differenza di quanto molti credono, ma un’occasione per ricordare a chi non ci pensa ogni giorno che le donne non sono libere, non sono rispettate e non sono mai realmente al sicuro. Non c’è niente da festeggiare per un giorno così, non ci sono cioccolatini da comprare o mimose da regalare. Semmai, mimose da cucirsi sul petto, per rassicurare le donne che si incontrano di avere davanti un alleato.