Nelle settimane che stiamo vivendo, è talmente tanta la confusione che si registra tra la Camera e il Senato che a volte non riusciamo a capire chi stia alla maggioranza e chi all’opposizione. Da giorni, infatti, si è tornati a parlare dei famigerati responsabili – di cui francamente non sentivamo la mancanza – pronti a traslocare tra le fila del governo pur di garantire la stabilità dell’esecutivo, così come alcune forze che sostengono Conte e che, pur occupando Ministeri e ruoli di grande rilievo, stanno giocando a fare gli avversari politici. E non parliamo solo di Italia Viva, il cui leader è talmente scottato dal già annunciato fallimento della sua nuova creatura che, come suo solito, è pronto a buttare la palla in tribuna pur di sfasciare tutto, probabilmente forte di un 40% che non ha più. Parliamo anche del MoVimento 5 Stelle, cioè la forza che ha espresso l’attuale Presidente del Consiglio e che rappresenta circa un terzo del Parlamento.
Lo scorso sabato, il partito fondato da Grillo e Casaleggio è sceso in Piazza Santi Apostoli a Roma per difendere la propria battaglia sui vitalizi contro cui si sono schierati in tanti tra coloro che ne hanno perso i privilegi. Il punto, però, non è se la difesa di tale principio sia giusta o meno ma il modo in cui i grillini si sono presentati alla recente manifestazione. Su un palco che ha visto il ritorno pubblico di Luigi Di Maio, sembrava che in questi dieci anni non fosse cambiato niente, che il M5S non fosse entrato in Parlamento o nei Consigli Regionali, che non avesse stipulato un contratto di governo con la Lega, che non fosse ora al potere con quel PD che aveva definito il partito di Bibbiano e, soprattutto, che non avesse perso migliaia e migliaia di voti.
Su questo giornale abbiamo chiesto ripetutamente al MoVimento se non fosse il caso di fermarsi a riflettere e fare un sacrosanto mea culpa. A tal proposito, speravamo che le dimissioni da capo politico dell’attuale Ministro Degli Esteri fossero l’occasione giusta per rendere conto di quanto fatto e chiedere anche scusa, giusto per dimostrare che loro – come dicono – sono davvero diversi dagli altri. E invece niente. Peggio ancora, quello che si è visto e sentito nella manifestazione contro i vitalizi è stato un tentativo malriuscito dei 5 Stelle di tornare alle origini per rivendicare ancora quelle storiche prese di posizione che li hanno caratterizzati, quando potevano metterci la faccia nel raccontare ai loro elettori cosa non è andato.
È stato a dir poco surreale, invece, sentire Luigi Di Maio affermare che se oggi siamo qui in piazza, è perché crediamo nelle istituzioni all’altezza dell’amore che proviamo per il nostro Paese perché quelle istituzioni di cui ha parlato sono rappresentate anche dai suoi uomini. Dunque, se qualcosa di quanto accade nei palazzi non lo aggrada, dovrebbe prendersela con se stesso e porsi delle domande. Ancora più sbalorditivo è stato, poi, sentirlo invocare fiducia nei propri rappresentanti: quando fa così, sembra che a parlare sia un Di Maio diverso dal titolare della Farnesina – uno dei Ministeri maggiormente di rilievo –, dal politico che ha ricoperto il ruolo di Vicepremier nonché di Ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico.
A conferma della mal riuscita imitazione dei raduni organizzati in questi mesi dalle sardine vi sono state, inoltre, le parole di Bonafede che ha parlato di una piazza che vuole fare solo una cosa sacrosanta: rivendicare il suo diritto a essere il MoVimento 5 Stelle, il nostro diritto a essere quelle forza politica entrata nelle istituzioni che ha portato avanti battaglie che i cittadini volevano da decenni e che tutti ignoravano trovando un punto di riferimento nei valori che da sempre ci uniscono. Parole che dimostrano il distacco ormai evidente tra la classe dirigente grillina e il Paese, oltre che il senso di smarrimento di chi scende in piazza come se fosse all’opposizione. Non perché chi governa non possa manifestare, ma perché chi ha ruoli di responsabilità, quando si presenta davanti ai cittadini, dovrebbe rendicontare il proprio operato e spiegare verso quale direzione intende procedere, con la consapevolezza che non si è più un movimento di strada ma una forza di palazzo.
Per questo il Ministro della Giustizia farebbe bene a trasformare le sue parole in domande: dopo la prima esperienza di governo e dopo aver tradito se stessi, hanno ancora il diritto di essere il MoVimento 5 Stelle? E, di grazia, si può sapere, oggi, quali sono i valori che li uniscono? Perché, a questo proposito, sarebbe il caso di far notare il cambio di passo dello stesso deputato di Pomigliano D’Arco sul caso Giulio Regeni, ad esempio, per il quale – come ricordato proprio qualche giorno fa dalla madre del giovane ricercatore ucciso in circostanze vergognosamente misteriose – l’ex Vicepresidente della Camera nel 2016 invocava giustizia e parlava di passerelle dei nostri Ministri in Egitto, chiedendo che il governo minacciasse o avviasse ritorsioni economiche contro il Paese egiziano.
Ora che è proprio lui Ministro degli Esteri, però, non sembra che sia cambiato niente, facendosi notare – ancora una volta – per il suo silenzio e per la sua inerzia su questioni delicate che andrebbero affrontate fino al raggiungimento della verità a ogni costo. Quattro anni fa, Di Maio sosteneva che in quella vicenda ci fosse puzza di bruciato e che l’Italia dovesse andare fino in fondo. Oggi – a eccezione di qualche presa di posizione di Roberto Fico – il nulla. E il MoVimento 5 Stelle, tanto per cambiare, tradisce se stesso, i suoi elettori e la sete di giustizia che tanto aveva a cuore.