Negli ultimi giorni, una coalizione di paesi si sta muovendo per salvare il pianeta. Gran Bretagna, Francia, Italia, Stati Uniti: sono solo alcuni degli Stati che stanno negoziando una nuova soluzione green, capace di evitare il cambiamento climatico e tutelare la biodiversità della Terra. Si chiama 30×30: è il piano per salvaguardare il 30% degli oceani e dei mari globali entro il 2030. Come? Rendendo questi spazi delle “aree protette”, riserve inabitabili dagli esseri umani, dove la natura possa fare da padrona. Dopotutto, come è stato spesso urlato nei cortei di Friday for Future, è l’uomo a essere il virus. L’unico animale che distrugge qualsiasi cosa che tocca, che inquina, avvelena, abbatte. L’unico modo per il pianeta è allontanare questa specie pericolosa da terre e oceani (o almeno dal loro 30%) e chiuderla nelle sue torri di cemento. Oppure no?
A essere escluse dai tavoli dei negoziati sono state le popolazioni indigene. Un dato che sorprende: sono i nativi, infatti, a offrire il miglior esempio di convivenza equilibrata e pacifica con la natura. È stato scoperto che l’80% della biodiversità terrestre si trova proprio in terre tribali, grazie al sapere che si tramanda da secoli: micro-manipolazioni ambientali, scambi di semi e operazioni di ingegneria ecologica. È stato più volte provato che le aree gestite dai popoli indigeni hanno minori tassi di deforestazione e più diversità rispetto alle riserve di proprietà privata o pubblica, e il loro costo è infinitamente minore rispetto al mantenimento delle aree protette convenzionali. Eppure, saranno proprio queste le vittime sacrificali del piano 30×30. Le aree che stanno venendo individuate come possibili nuove riserve sono proprio quelle abitate dagli indigeni.
Una volta diventati aree protette, a nessun essere umano sarà concesso di abitare questi spazi, neanche a chi da sempre li ha custoditi. I leader indigeni si sono espressi con forza contro il piano 30×30, temendo una diaspora che coinvolgerà 300 milioni di persone. Dopotutto, è già successo: la riserva di Tumba Lediima (Congo) fu creata nel 2006 senza consultare nessuna delle 120mila persone che vivevano nelle foreste. Ovviamente, queste riserve vengono difese da rangers pesantemente armati. Una ricerca condotta dall’Università di Helsinki ha analizzato 34 aree protette del Basin in Congo, scoprendo che 24 di queste hanno portato all’esodo dei nativi e in 18 aree sono state denunciate gravi violazioni dei diritti umani. Stupri, violenze e minacce sono state raccontate dai leader indigeni, e le restrizioni su caccia e pesca hanno portato alla malnutrizione e alla morte dei più piccoli.
Testimonianze simili sono state raccolte anche in India, Perù, Myanmar: secondo le voci indigene, i Parchi Nazionali uccidono. È quello che sta accadendo anche in India, nella Kaziranga Tiger Reserve. Survival International ha da poco riportato che il popolo tribale degli Adivasis sta venendo deportato illegalmente dalla giungla che ha sempre custodito, in nome della protezione della fauna. Secondo il governo indiano, i nativi starebbero uccidendo le tigri: in realtà, uomo e felino convivono da molto prima che esistesse un governo. Il popolo dei Chenchu venera la tigre, la considera sia come una divinità sia come un membro della famiglia spirituale della tribù. Per i popoli Baiga e Mising, invece, la tigre è un compagno con cui condividere la foresta. Le associazioni ecologiste continuano a dichiarare che l’abbandono della foresta sia volontario, eppure alle telecamere i leader indigeni ripetono: viviamo nella giungla e moriremo nella giungla. La giungla è nostra madre e la nostra vita.
Survival International si è da tempo scagliata contro il WWF e altre note associazioni ecologiste, accusandole di colonialismo e ipocrisia. Nel 2019 è stata pubblicata una lunga inchiesta di BuzzFeed, nella quale il World Wide Fund è stato accusato di finanziare tortura, stupri e omicidi. Altro che panda cuccioloso. Le forze paramilitari finanziate in Africa e Asia hanno commesso atrocità contro le popolazioni indigene, decimate e deportate. Il WWF ha risposto negando il proprio coinvolgimento negli accertati episodi di violenza dei rangers, ma, in un successivo report, ha ammesso che alcuni membri dell’associazione erano a conoscenza di questi episodi. Insomma, l’organizzazione nega di essere complice o mandante dei rangers (che, seppur da essa finanziati, erano statali), ma ammette di aver ignorato le accuse di stupro e violenza.
Survival si è dichiarata delusa dal report, e le stesse comunità indigene non si sentono al sicuro. A loro non interessa se il fallimento sia stato nel management o nella supervisione: vogliono solo che i governi e il WWF tengano le mani fuori dalle loro terre. E non hanno torto. Il piano 30×30 dovrebbe essere stipulato a maggio durante la COP15 convocata in Cina, ma nessuna delle voci indigene è stata ascoltata. Non sembra che i governi ritengano gli indigeni in grado di gestire le loro terre o i loro leader degni di considerazione. Ancora una volta, l’approccio del nord della Terra è miope, coloniale e fallimentare. Lo sguardo dei potenti è affetto da puro realismo capitalista: non si è in grado di immaginare un modello di vita differente perché l’unico che conosciamo è improntato sullo sfruttamento. Allora, sicuramente anche gli indigeni sfrutteranno e uccideranno.
Se non si riesce a immaginare, a sperare in nulla di meglio, se si crede che l’uomo sia il virus, è chiaro che separare sembra l’unica soluzione. Il concetto stesso di riserva ghettizza, esclude, compartimenta: l’uomo da un lato, la natura dall’altro. Ognuno nel suo spazietto, per evitare la mutua distruzione. E no, il bosco verticale non vale come eccezione. Nel frattempo, però, l’industria e l’inquinamento imperverserà nel restante 70% del mondo: fallimentare è stata la COP26, disattese sono state le promesse di un capitalismo sostenibile. Le Nature-based solutions di cui si parla tanto – l’idea che creando più aree protette sarà la natura stessa a combattere l’inquinamento – sono un ragionamento rischioso: giustificherebbero il perseverare delle industrie pesanti nel loro operato. Si tratta di una panacea, una semplice soluzione che può lasciare invariate le nostre abitudini di consumo.
Nessuna via radicale, nessun nuovo abitare il mondo: possiamo continuare col capitalismo più sfrenato, basta che piantiamo più alberi in luoghi sperduti. Non mi sorprende che Shell sia una delle aziende sostenitrici di questo approccio. Per quanto preservare le foreste sia fondamentale per assorbire le attuali emissioni di CO2, questa soluzione fallisce in lungimiranza: per sopravvivere, la nostra specie ha un bisogno primario di recuperare un rapporto etico con il pianeta. Siamo ciechi ai segnali della terra, non comprendiamo i suoi ritmi, i suoi bisogni. Viviamo chiusi in scatole illuminate artificialmente, nutrendoci di animali che non abbiamo mai visto fuori dalle pubblicità e frutti di alberi che non sapremmo riconoscere. Ci riempiamo di pasticche per sopportare uno stile di vita artificiale, e paghiamo costosi abbonamenti per correre o nuotare chiusi in altre stanze. Abbiamo perso tutto.
E vogliamo che anche gli altri soffrano come noi. Ora, immaginate di essere un Baka, un cacciatore della foresta pluviale del Congo. Conoscete ogni sasso e ogni pianta intorno a voi. I vostri nonni sono stati sepolti sotto un grande albero, nella terra. Voi e la vostra gente vi siete presi cura della foresta, l’avete amata, custodita. Ora, immaginate di essere costretti a scappare. Immaginate la vostra casa distrutta. Questo perché un uomo bianco che vive in un grattacielo lontano crede che così proteggerà la foresta. Da voi. Un uomo bianco che lavora in una compagnia che produce ben 60.64 milioni di tonnellate di diossido di carbonio all’anno. Un uomo che ha bisogno di sapere che i teneri cuccioli di elefante nella vostra foresta staranno bene, ma senza mettere in discussione nulla della propria esistenza.
L’unica salvezza che abbiamo è ascoltare quel Baka. Ascoltare le popolazioni che stanno provando disperatamente a prendere voce, ad avvertirci dei nostri errori. No, non stipulare accordi e affidare la gestione delle aree protette agli indigeni, ma uscire fuori da una mentalità di privatizzazione della natura. Non guardarla come un bene da ottenere, ma come un essere da rispettare. Studiare le cosmologie indigene per ricostruire una nuova posizione dell’uomo nel mondo. Abbiamo bisogno di comprendere lo stile di vita ancestrale e portarlo nelle nostre giungle di asfalto e cemento. Dobbiamo smettere di ascoltare le vane promesse delle aziende: non esistono soluzioni comode. Diamo fiducia a chi da sempre ci dimostra che non c’è un solo modo di vivere. Che possiamo essere migliori. Che l’uomo non è il virus, il virus è il capitalismo.
Solo un piccolo appunto: la parola “indigeno“ significa semplicemente persona nata in quel luogo, quindi in realtà ogni luogo della terra è abitato da un certo numero di indigeni (ad esempio, in Italia, tutti coloro che sono nati nel nostro paese).
Collegare questa parola all’immagine di tribù che vivono allo stato della pietra è solo il frutto di un pregiudizio culturale.
Concordo: proprio in un articolo precedente, col professore Massimo Canevacci, abbiamo sfatato questa concezione da “national geographic” dei popoli indigeni. In questo articolo ho linkato anche diverse testimonianze di leader nativi tutt’altro che “all’età della pietra”, ma anzi, del tutto attivi sui social. Il piano 30X30, però, riguarderà nello specifico i popoli indigeni che vivono nelle foreste e nelle zone rurali del sud del mondo, i quali hanno un rapporto con la natura particolare (testimoniato da loro stessi in diverse interviste) ed un impatto ambientale minimo. Alla prossima occasione lo specificherò con maggiore chiarezza, grazie mille dell’appunto