Migena Kellezi, trent’anni, scannata al collo con un coltello da cucina dopo una lite domestica. Lascia un figlio di otto anni e un marito che non l’amava.
Giordana Di Stefano, vent’anni, quarantadue coltellate. Lascia l’ex convivente assassino e la loro bambina.
Debora Fuso, venticinque anni e più niente, nemmeno giustizia, solo quindici coltellate e una lama spezzata in corpo. Per l’ex fidanzato, rito abbreviato: Abbiamo cominciato a litigare e poi il macello, mi è partito l’embolo. A lui parte l’embolo e lei va al macello.
La triste storia si ripete, all’infinito. Riempie i necrologi. Donne intelligenti, donne piene d’amore. Donne dal presente distrutto e indistruttibili speranze di futuro. Donne a cui alla fine è stato tolto ogni tempo. Per gli Uomini sono custodi di vita, per gli altri sacchi da boxe, valvole di sfogo, bellezza da possedere. In un presunto trionfo di virilità che sa di debolezza, sono luce da spegnere.
In fondo, a che servono le donne? A reggere nell’ombra la grandezza dei propri uomini, a placare l’ira di ogni nuovo fastidio quando finisce il Diazepam. E a che serve il 25 novembre? A ricordare che chi le viola viola la vita, che non esiste una sola violenza, che non si deve per forza scendere sottoterra per morire, che chi picchia, manipola, svilisce, sovrasta, ammazza ogni giorno: con le parole, uno sguardo, con la sola presenza. Pervade tutto: le ore, il corpo, i pensieri. Resta addosso, anche quando non lascia cicatrici a vista.
La Giornata internazionale contro la violenza sulle donne apre sedici giorni di attivismo, in una lotta che dura da sempre, ma che ora meno che mai è solo privata. Nessuno deve essere lasciato indietro, lo gridano in tante, lo gridano in tanti, lo intima l’ONU con una campagna che solo sulla carta termina il 10 dicembre, nella Giornata per i Diritti Umani, ma che nei fatti perdura, va avanti, cresce insieme alla consapevolezza che non è “amore malato”, ma solo malattia. È senso di impotenza, non di chi subisce, ma di chi fa, di chi ha bisogno di usare le mani per sentirsi forte, per ottenere qualcosa. È la cieca difesa dei vili, perché, come ha detto un uomo (Johann Wolfgang von Goethe), chi è nell’errore compensa con la violenza ciò che gli manca in verità e forza.
Quante volte ancora si dovrà dire basta? Quanta morte ancora sarà necessaria per raggiungere l’agognata “civiltà” con cui ci riempiamo la bocca? La stessa civiltà in cui quando una donna denuncia viene presa per pazza o esagera, diffama, non ha prove, e per ottenere credibilità deve farsi uccidere, perché qui non esiste prevenzione e la pena va accordata solo quando il dramma viene colto sul fatto, o si trova il cadavere.
Si parla un sacco e insieme alle parole non si contano più le vittime. Sfiorano i sette milioni, secondo l’Istat, le donne che nella propria vita hanno subito qualche forma di abuso, che fosse esso fisico, sessuale o psicologico cambia poco: sono il 35% delle donne nel mondo. Solo in Italia, se si parla di femminicidio, le cifre spaventose contano in media una vittima ogni tre giorni nell’anno corrente. Con lo stalking, sempre in Italia, si parla, invece, del 16% delle donne tra i sedici e i settanta anni: tre milioni e quattrocentosessantaseimila, di cui il 78% non ha cercato aiuto, soprattutto alle autorità. Come biasimarle, se lo Stato in cui vivono non le tutela nemmeno sul lavoro, dove i tassi di disoccupazione per loro sono più alti, mentre gli stipendi si abbassano.
Davanti a realtà del genere – realtà di genere – il femminismo diventa necessità, difesa delle donne per le donne, tutela dei diritti e della vita, e ancora di più del diritto alla vita.
D’altra parte, il 25 novembre non è una data scelta a caso, ma il ricordo di un brutale assassinio: tre donne, le sorelle Mirabal, furono uccise per aver detto no al regime dittatoriale di Rafael Leónidas Trujillo nella Repubblica Dominicana. Torturate a colpi di bastone e strangolate, furono gettate in un precipizio a bordo della propria auto, nell’intento di simulare un incidente. Era il 25 novembre del 1960.
Da allora, molte altre donne hanno detto no, e tante hanno condiviso la miserabile sorte delle sorelle Mirabal: il rifiuto fa paura, il rifiuto fa la rivoluzione. Ed è a questo che bisogna appellarsi, sempre, perché un no detto con decisione non può essere spento nemmeno con la morte. Se quelle donne non fossero riuscite a dire no, non ci sarebbe stata memoria, niente attivismo, niente manifestazioni contro la violenza, e tante, tantissime altre sarebbero scomparse in silenzio, in questo caso davvero nell’ombra.
Oggi come allora, la potenza di quelle due lettere deve riecheggiare, e sempre più forte, per raggiungere ogni angolo del mondo, ogni casa, ogni relazione malata, ogni donna degna di questo nome e ogni uomo che, invece, ha seppellito la propria umanità con le sue mani sporche di sangue.