Il 2022 ha rappresentato per l’universo penitenziario un anno drammatico, di cui l’espressione più tragica è stato sicuramente il più alto numero di suicidi registratosi dal 2009, quando, però, la popolazione detenuta era molto più numerosa. Negli ultimi dodici mesi, ben ottantaquattro persone si sono tolte la vita tra le sbarre, una ogni cinque giorni circa: persone le cui grida di aiuto sono rimaste inascoltate, in un’indifferenza che ci rende tutti colpevoli.
Un numero così alto di suicidi dipende dalle condizioni di vita disumane degli istituti di pena: le celle sovraffollate, la violazione delle più basilari condizioni igienico-sanitarie (proprio quest’anno è stato stabilito che il wc in cella, presente ancora in moltissimi istituti, rappresenta un trattamento inumano e degradante), oltre che la carenza di assistenza medica costante e l’indifferenza nei confronti dei disagi psichici che in carcere non fanno che scoppiare.
Le fragilità e le patologie di natura psicologica di chi entra in un istituto di pena, complice la pandemia, sono aumentate, mentre, secondo i dati forniti dall’Associazione Antigone, l’assistenza continua a essere insufficiente: 8,3 ore alla settimana di copertura psichiatrica ogni 100 detenuti e 17,2 ore alla settimana di servizio psicologico, a fronte di una situazione drammatica che vede una diagnosi di patologia psichiatrica grave per più dell’8% delle persone detenute. L’unica risposta sembrano essere l’indifferenza e la medicalizzazione: il 18,6% della popolazione carceraria assume regolarmente stabilizzanti dell’umore, antipsicotici o antidepressivi e ben il 42,4% sedativi o ipnotici. Intanto, insufficienti sono anche le opportunità lavorative, di studio, di socializzazione.
Una situazione tragica, che necessiterebbe di un serio dibattito sul senso della pena, e dunque sulla rieducazione, e di ingenti investimenti proiettati però al di fuori dell’istituzione carceraria, che risulta essere inefficace, oltre che dannosa, rappresentando, secondo voci autorevoli, una vera e propria scuola di criminalità. Quasi il 70% delle persone che hanno scontato una pena torna a delinquere perché porta con sé lo stigma di detenuto, e dunque non è in alcun modo reintegrato in società, pur essendo tra quei cittadini di cui lo Stato dovrebbe farsi carico.
Basterebbe questo a descrivere l’istituzione penitenziaria come un fallimento e con essa quest’anno che ha portato con sé ulteriori sconfitte per la società civile: prima tra tutte, l’emergere di continui casi di violenze e soprusi ai danni di chi è sotto la custodia di quello stesso Stato i cui rappresentanti abusano della propria posizione. Da ultimi, i quarantacinque avvisi di garanzia notificati a parte del personale del carcere di Ivrea, tra agenti e medici, che sarebbero colpevoli di tortura. È la stessa accusa che è mossa a carico di più di cento agenti penitenziari in servizio presso il carcere di Santa Maria Capua Vetere, per cui il processo – il più grande d’Europa – è iniziato proprio quest’anno.
Eppure, di fronte all’impellente necessità di profonde riforme, che non riguardino certamente la costruzione di nuovi istituti, le prospettive per il 2023 non sembrano essere migliori. Raccontavamo poche settimane fa dei tagli previsti dalla nuova Legge di Bilancio, attraverso la razionalizzazione del personale in servizio presso gli istituti penitenziari e del servizio mensa delle carceri minorili e di comunità. Tagli che non promettono nulla di buono e che sono espressione di una classe politica incapace di guardare a un palmo dal proprio naso per rendersi conto degli investimenti seri da mettere in atto per un mondo tanto martoriato, nutrendo quella stessa istituzione totale che porta con sé simili danni, buona solo a fare passerelle e promesse di repressione, l’unica risposta che pare possibile, fin dalla campagna elettorale della scorsa estate.
Del resto, si tratta di incamminarsi su un solco già profondamente tracciato dai precedenti esecutivi: basti pensare che con una gara bandita più di un anno fa sono stati stanziati quasi 6 milioni dei fondi provenienti dal PNRR per l’acquisto di caschi e dotazioni antisommossa destinati alla polizia penitenziaria. Armi delle quali non c’era alcuna urgenza e che dovrebbero essere usate in casi assolutamente limite secondo quanto previsto dalla legge, eppure diventate la priorità per quelle risorse che potevano essere utilizzate in ben altro modo.
Il 2022 è stato anche l’anno in cui è stata formulata una nuova vergognosa legge sull’ergastolo ostativo, su cui era pendente una pronuncia della Corte Costituzionale e che non è altro che l’espressione di uno Stato irragionevole e aguzzino.
Sembra scontato dire che speriamo in 2023 migliore, di fronte a simili prospettive, mentre il carcere non è altro che una discarica sociale in cui far confluire tutto ciò che non ci va di affrontare: l’emarginazione, la povertà, la solitudine, la sofferenza. La società civile ha il compito fondamentale di chiedere alla politica interventi veloci e urgenti, che ci salvino dall’abbrutimento a cui siamo giunti.