L’annus horribilis, il 2020, è agli sgoccioli. Mancano appena tre settimane alla mezzanotte del prossimo 31 dicembre, il momento che sancirà – finalmente – il passaggio nel prossimo anno e la messa in soffitta di quello attuale. Quelli appena trascorsi sono stati mesi drammatici, 365 giorni scanditi dalla conta dei nuovi contagi e successivi decessi dovuti alla pandemia da coronavirus.
L’Europa ha pagato un prezzo altissimo in termini di vite umane, con la conseguente epidemia finanziaria che ha messo in ginocchio milioni di imprese, famiglie e intere comunità. Gli Stati appartenenti all’Unione hanno reagito ognuno alla propria maniera, ognuno secondo la propria cabina di regia, trovando negli uffici di Bruxelles un alleato non sempre presente e affidabile, in particolar modo per quanto riguarda le risorse necessarie ad affrontare l’emergenza sanitaria da mettere a disposizione dei governi.
Il progetto di un’Europa libera e unita è stato minato alle fondamenta dal virus che ne ha mostrato ed evidenziato limiti e difetti, soprattutto per quanto concerne la solidarietà tra i Paesi facenti parte. Dal processo di Brexit che andrà compiendosi con l’arrivo del 2021, passando per l’ostracismo degli Stati frugali al Recovery Fund in soccorso alle nazioni in maggiore difficoltà, fino ai passi ancora da compiere verso il Green Deal, gli ultimi giorni del 2020 hanno il dovere di rassicurare e indirizzare il futuro di intere generazioni.
Entro la fine dell’anno andrà, innanzitutto, trovato l’accordo sul bilancio pluriennale dell’Unione Europea, nel quale è compreso l’accesso al programma del Recovery Fund. Mentre la popolazione mondiale aspetta l’avvio delle prime somministrazioni del vaccino contro la COVID-19, il Consiglio Europeo in programma oggi e domani, 10 e 11 dicembre, proverà a ridurre la distanza fra i Paesi che intendevano espandere il bilancio e i conservatori (cosiddetti frugali), che invece puntavano a lasciarlo più o meno invariato.
Se il veto posto da Polonia e Ungheria dovesse resistere anche all’ultimo tentavo della Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen verso l’unanimità, dunque se non verrà trovato un accordo entro la fine del 2020, la UE entrerà in una fase di esercizio provvisorio, cosa finora mai successa. Tradotto, alcuni dei programmi come quelli legati a istruzione e ricerca (Erasmus+ e Horizon) non potranno essere garantiti, e verranno sensibilmente ridotti anche i fondi di coesione, distribuiti nelle regioni più povere in Europa. Un’ipotesi buia a cui Bruxelles sta provando a porre rimedio.
I Paesi frugali, tuttavia, non sono d’ostacolo solamente al ricorso al Recovery Fund, ma anche all’accordo definitivo sulla Legge sul Clima – punto centrale del Green Deal – che mira a una maggiore sostenibilità dello stile di vita tra i confini del Vecchio Continente. La pandemia ha, di fatto, cancellato la discussione sull’ambiente dalle agende di governo, tuttavia, risolvere la questione entro il 2020 risulterebbe fondamentale per avvicinare l’Unione all’obiettivo zero emissioni del 2050, rendendo il risultato vincolante per tutti gli aderenti. A tal proposito, il Recovery Fund e il Green Deal sono strettamente legati tra loro. Attraverso il fondo europeo, infatti, sono 17.5 i miliardi stanziati per un taglio del 55% delle emissioni, target ritenuto, però, troppo stringente dai frugali che ancora dipendono in larga parte dai combustibili fossili e che fanno pressione per includere il gas tra le energie considerate rinnovabili, contro il parere degli ambientalisti.
Una fase importante – se non addirittura fondamentale della partita – si giocherà sul campo finora ostile dell’Atlantico, con il neo Presidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden, che potrebbe spingere a favore dell’accordo, in misura esattamente opposta al suo predecessore. Bruxelles cerca in Washington una rinnovata alleanza, un nuovo vento che ispiri anche le più strenue resistenze europee. E chissà che l’entusiasmo democratico che abiterà dal 2021 la Casa Bianca non contagi l’Europa anche per ciò che riguarda la Brexit. Il processo di separazione del Regno Unito dalla UE, infatti, avrà il via definitivo al termine del 2020, tuttavia, l’accordo tra il premier britannico Boris Johnson e Ursula von der Leyen non è stato ancora raggiunto. Il nodo della questione sembra essere di carattere commerciale e non vi è una singola stima che incoraggi Londra nella sua scelta di andare fino in fondo.
Se non bastasse il dramma sociale a cui si assisterebbe in merito alle questioni di natura migratoria da parte degli altri Paesi partner della UE, gli analisti prevedono un tragico calo del PIL della nazione di oltre due punti percentuali, un autogol clamoroso che l’economia inglese si infliggerebbe con i tifosi accecati dalla lacrimogena campagna elettorale di Johnson a tifare per la palla che scivola verso la rete sbagliata. In realtà, ciò a cui mira il capo politico del partito conservatore – pur conscio dei danni che rischierebbe di imporre ai mercati e alla finanza di Sua Maestà – è un nuovo consolidamento dell’immagine britannica, così da trarne vantaggio anche per la propria leadership, messa in discussione dagli stessi conservatives.
Il Regno Unito cerca, attraverso la Brexit, di riappropriarsi del profilo ormai sbiadito di potenza mondiale assoluta, colonizzatrice e padrona, tutto quanto lasciato per strada dal maestoso impero britannico, oggi ridotto all’organizzazione intergovernativa degli Stati indipendenti (53) – comunque diretti da Marlborough House – del Commonwealth. Questione di propaganda, come d’altronde la Brexit stessa, una semplice dimostrazione di forza.
La questione più urgente, però, non può non essere quella legata ai vaccini e alla loro distribuzione. Con i dubbi che ancora vertono in merito all’efficacia dei farmaci, e le prime reazioni dai Paesi che già hanno avviato la somministrazione, un’attenta tutela verso il ceto medio e le classi più disagiate dovrà essere compito della politica. Secondo alcune stime, infatti, l’antidoto alla COVID-19 rischia di essere un affare per pochi, per ricchi. Per una ricerca condotta da People’s Vaccine Alliance (che raggruppa Amnesty International, Frontline Aids, Global Justice Now e Oxfam) al 14% della popolazione mondiale potrebbe essere destinato il 53% delle dosi, il che vuol dire che per nove persone su dieci, in almeno settanta Stati a basso reddito, esiste la possibilità di non aver accesso ai vaccini, già acquistati in maggioranza dall’Occidente.
Il coronavirus – lo abbiamo già scritto – è stato, ed è, un evento drammatico non solo per la salute pubblica. L’emergenza più grande, la distanza maggiore che la COVID ha messo in evidenza è senz’altro quella sociale, con i ricchi sempre più ricchi e le fasce più povere della società che hanno visto i loro già drammatici numeri andando gonfiandosi. La forbice sociale non è mai stata tanto larga quanto dai due dopoguerra, e mai nella storia del mondo una percentuale così stretta di persone ha detenuto la maggior parte delle ricchezze, con la pandemia che ha contribuito a gonfiarne le tasche.
L’annus horribilis, il 2020, è agli sgoccioli. Eppure, questi ultimi venti giorni di dicembre potrebbero essere un forte spartiacque tra il mondo com’è e ciò che sarà da domani.