11 settembre 2001. Ritorna quella data maledetta.
E quel che è avvenuto subito dopo, in successione talmente rapida da stordire, da togliere il tempo di riflettere.
Crollano le Torri Gemelle e spariscono tremila vite umane: a New York sono le 10.28.
Chi è stato? Molto probabilmente Osama bin Laden, comunica la Cnn alle 16.00.
Dov’è? In Afghanistan.
“Il governo americano non farà distinzioni fra i terroristi che hanno commesso questi atti e coloro che li ospitano”, dichiara il presidente Bush nel suo discorso alla nazione alle 20.30.
In dieci ore e due minuti il governo degli Stati Uniti d’America scopre chi ha ordinato l’attentato, dove si trova e chi sono i suoi complici. Un lavoro davvero incredibile.
Ma non è tutto. Identifica, in dieci ore e due minuti, un paese nemico, una nazione a cui dichiarare guerra, una terra di pastori e contadini su cui far cadere bombe da sette tonnellate, da invadere con forze speciali, una terra dove stabilire basi militari, e con l’occasione costruirne anche nei paesi limitrofi.
Che cosa ha a che fare tutto questo con il trovare e punire i responsabili del massacro di New York? C’è un salto logico tra l’assicurare criminali alla giustizia e il bombardare un paese.
“Perché tutto questo e tutto così in fretta?”
Ricordo perfettamente dov’ero l’11 settembre del 2001: nella sala d’aspetto di un dentista. Avevo compiuto nove anni da diciannove giorni, quando il programma pomeridiano che ero solita guardare all’epoca e che mi stava tenendo compagnia anche in quell’attesa fu interrotto dalle immagini di due enormi grattacieli che, di colpo, crollavano su se stessi. Qualcuno parlava di attentato ma, a quell’età, attentato nemmeno sapevo cosa volesse significare. Oggi, forse, a nove anni avrei capito piuttosto rapidamente. Credo che la maggior parte di noi, in realtà, saprebbe dire dove si trovava quel maledetto giorno alle 16.28, minuto più, minuto meno. In fondo, anche se nell’immediato inconsciamente, tutti sapevamo che qualcosa di importante stava per iniziare e che le nostre vite sarebbero cambiate. Per sempre.
La buskashì, come si legge sulla quarta di copertina dell’omonimo libro del 2002 di Gino Strada – fondatore, insieme a sua moglie Teresa Sarti, di Emergency –, è il gioco nazionale afghano: due squadre di cavalieri si contendono la carcassa di una capra decapitata. È violento, senza regole. L’unica cosa che conta è il possesso della carcassa, o almeno di quello che ne resta al termine della gara. È come il tragico gioco a cui partecipano i numerosi protagonisti del conflitto afghano. Una partita ancora in corso, solo che al posto della capra c’è il popolo dell’Afghanistan.
A nove anni non sapevo nemmeno dove fosse quel Paese dell’Asia che stava riempendo le pagine di tutti i quotidiani e che, improvvisamente, si era catapultato, prepotente, nella mia infanzia, interrompendo i cartoni animati. A scuola o nei negozi dove accompagnavo la mamma a fare la spesa, non si parlava d’altro. Tutti, non solo gli Stati Uniti, dichiaravano di avere un nemico, l’Afghanistan, e odiavano quell’uomo con la barba e il turbante, Osama bin Laden. Tutti, asciugandosi le lacrime, sentivano la necessità di una vendetta, volevano la guerra.
Neanche di fronte al macello, alle urla e alle invocazioni di aiuto di chi sta per morire, la specie umana è capace di fermarsi, di riflettere. Ci sono ancora persone a brandelli là sotto, non sappiamo ancora quanti stanno agonizzando tra le macerie di New York, e già c’è chi pensa a un nuovo macello. Moriranno altri innocenti.
Intanto, a poche ore dal massacro, mentre gli attivisti di Emergency preparavano il viaggio, le Nazioni Unite e molte delle organizzazioni presenti in loco – tra cui la Croce Rossa – annunciavano che sarebbero rientrate: le bombe a stelle e strisce stavano per piovere dal cielo afghano. Non importava cosa o chi avrebbero colpito, non importava quanti ne avrebbero subito le conseguenze: il sangue americano andava lavato con altro sangue.
Eppure il 12 settembre è un giorno come un altro in Afghanistan, miserie e lutti quotidiani che si ripetono da un quarto di secolo. E allora perché evacuare?
Se lo chiede, non senza sentimento e difficoltà – dovuti al delicato argomento affrontato –, Gino Strada che, in centosettantotto pagine, ci riporta alla crudeltà di quei giorni in cui, mentre il mondo puntava il dito e gli aiuti umanitari facevano le valigie, lui e la sua meravigliosa squadra tentavano in tutti i modi – riuscendoci grazie a un viaggio “clandestino” – di raggiungere e di curare chi con quella violenza non c’entrava nulla. I bambini, su tutti, quelli che giocavano tra le mine antiuomo o quelli a cui un razzo era entrato direttamente in classe. Danni collaterali, li aveva definiti qualche esperto. Ma quei bambini, come noi tutti, erano andati a scuola per imparare, non per morire.
Nel frattempo, qualcuno sentenziava che sotto attacco ci fosse la civiltà e la guerra, che fino ad allora avevo sempre percepito come un qualcosa di triste e violento, si stava trasformando in umanitaria. I media la chiamavano così, ma quale collegamento potesse esserci tra le due parole non riuscivo a capirlo. Ancora oggi faccio fatica. L’informazione tutta tentava di propinarci la favoletta del conflitto giusto e inevitabile, un conflitto utile a riportare democrazia e ordine. Con le bombe, già. Aveva ragione, Colin Powell, a definirla un’arma.
L’educazione alla pace dovrebbe diventare materia obbligatoria in ogni scuola. […] Invece si studiano le guerre – perlopiù memorizzando battaglie famose – ma non si studia mai la pace.
Ci abituano, quindi, sin da piccoli, a familiarizzarvi, ma non per prepararci alla sua brutalità, piuttosto per farcela digerire meglio, per neutralizzarla, per farla apparire consequenziale, normale. Ma la guerra non è mai normale e chi la conosce per davvero, come gli attivisti di Emergency, lo sa bene. Gino Strada non ha paura di scrivere, di raccontare la verità di quegli anni, di arrabbiarsi, di guardare negli occhi di coloro che vogliono impedirgli di fare il medico, di aiutare gli altri, di condannarli. Come un secchio d’acqua che ci colpisce all’improvviso, il suo libro, senza giri di parole, ci sveglia da un torpore a cui ci hanno costretto, sin dal primo istante, sin da quell’11 settembre maledetto, ma anche prima, quando la CIA procurava le armi – “falsi d’autore” comprati in una fabbrica egiziana uguali ai kalashnikov russi, raggirando le leggi USA sulle forniture belliche a paesi in conflitto – ai militanti della jihad, i futuri terroristi.
Non ho visto giustizia in questi mesi, né pietà, non ho visto ragione né umanità. Forse anche per questo ho bisogno di casa.
Terrorismo era un’altra di quelle parole che stavo imparando. Una di quelle che oggi, insieme ad attentato, pronunciamo più spesso. Nessuno, però, me l’aveva mai spiegata. Nessuno, prima del fondatore dell’ONG, mi aveva detto che tutti gli atti di violenza, da un aereo che esplode contro un grattacielo alle armi chimiche di cui gli americani, come la storia insegna, sono esperti – basti pensare al Vietnam negli anni Sessanta (che ancora oggi subisce conseguenze pari a quelle di Hiroshima e Nagasaki, sempre per mano a stelle e strisce) e ai più recenti episodi siriani – o, persino, all’embargo, sono riconducibili a quella parola lì, terrorismo: la nuova frontiera del conflitto bellico, la sua più plausibile spiegazione. La guerra che genera guerra.
Nei mesi in cui Gino Strada e la sua coraggiosa troupe operavano in Afghanistan in seguito all’atroce episodio delle Torri Gemelle, le persone da loro curate erano già più di duemiladuecento con una percentuale di civili pari all’ottantasette percento. L’invasione straniera non cessava, le bombe nemmeno. La stampa mondiale, però, dichiarava che la democratica America e gli umanitari alleati – tra cui l’Italia, in barba alla Costituzione – avevano avuto la meglio, Kabul era stata liberata.
Avevo compiuto nove anni da diciannove giorni, quando la guerra uscì dai libri di storia per tornare, prorompente, nella quotidianità occidentale. Una guerra che avrebbe portato e porta ancora, la firma di ognuno di noi, persino la mia. Nessuno può dire “non lo sapevo”.
Non credere una parola, quando diranno che hanno “sconfitto il terrorismo”. […] Non credere una parola, ogni volta che cercheranno di spiegarti come sarà bella la guerra futura, tecnologica, selettiva, umanitaria”. Sarà solo un altro carico di morte e di miserie umane.