Alle soglie del nuovo decennio non possiamo sottrarci all’inevitabile gioco delle classifiche che sta spopolando nelle ultime settimane, di cui però ribadiamo la natura totalmente soggettiva e arbitraria. Il bello di questo gioco, infatti, è seguire le proprie passioni per cui sarà molto difficile che un elenco possa accontentare i palati di tutti.
Nella seguente classifica, dunque, abbiamo cercato di includere ciò che ci è sembrato più significativo, non per forza soltanto capolavori, ma anche quei film che ci hanno fatto provare qualche emozione in più oppure che ci hanno colpito per l’uso del linguaggio filmico. Sicuramente alcuni urleranno allo scandalo per l’esclusione di quel tale titolo o di quell’altro ancora. Nel qual caso, invitiamo chiunque a dirci la propria classifica. Non ce la siamo sentita, però, di ridurli a dieci perché avremmo dovuto escluderne troppi – importanti per chi scrive –, così abbiamo ereticamente deciso di costruire un elenco di venti titoli. E, sempre in direzione eretica, non abbiamo voluto metterli in ordine di preferenza ma solo in ordine cronologico, a seconda dell’anno di uscita nelle sale. Non chiedeteci chi piazziamo al primo o al secondo posto perché ognuno di questi film è riuscito a ritagliarsi un cantuccio rilevante nel nostro immaginario cinematografico.
Via con le danze.
Inception (2010): Di Caprio, come Morfeo, si muove nel mondo dei sogni degli altri per inserire innesti di idee, mentre il subconscio dell’ospite si ribella. Esplorazione onirica in cui ogni livello di sogno diventa ulteriore livello di enunciazione narrativa. La disintegrazione totale del racconto lineare in favore di una narrazione non lineare che segue invece il differente andamento temporale dei numerosi sotto-livelli onirici. Abissale.
The social network (2010): quando i dialoghi diventano il vero effetto speciale del film, vuol dire che dietro c’è uno sceneggiatore del calibro di Aaron Sorkin, sorretto in questo caso dalla messa in scena millimetrica del grande David Fincher. La storia di Mark Zukerberg vista come un lento discendere nel solipsismo paranoide e depresso, specchio degli utenti di Facebook. Seminale.
Tree of life (2011): le immagini (sontuose) della creazione dell’universo in parallelo con l’evoluzione di una famiglia americana nel Texas degli anni Cinquanta. Solo un regista-filosofo come Terrence Malick poteva riuscirci. Con questo film scoprimmo il talento di Jessica Chastain.
Drive (2011): Se guido io quei soldi saranno tuoi. Dammi ora e luogo e ti do cinque minuti. Qualunque cosa accada in quei cinque minuti sono con te. Ma ti avverto, qualunque cosa accada un minuto dopo, sei da solo. Questa la stringata filosofia del laconico pilota stuntman che guida le auto per le rapine e concede soltanto cinque minuti ai suoi clienti. Evoluzione del Driver di Walter Hill (1978) in cui la forma visiva del film diviene sostanza, in barba a qualunque dialogo superfluo. La scena nell’ascensore: vogliamo davvero parlarne? Da vedere e basta.
Faust (2011): il dottor Faust affonda il bisturi nel cadavere marcio della società e ne estrae gli organi ormai infetti. Margarete, simbolo di purezza, affonda se stessa nel lago di una regressione amniotica in una delle più belle immagini del decennio. Mefistofele invece è un omuncolo (Homunculus alchemico) deforme. Sokurov restringe il formato dell’inquadratura a 4:3 ma il film respira grazie a riprese distorte e allucinate che connotano la prospettiva morale del protagonista. Metafisica che diventa cinema, cinema che si fa metafisica.
The Master (2012): Paul Thomas Anderson firma un film spiazzante e disturbante in cui Joaquin Phoenix – in una incredibile interpretazione ancor più fisica e sorprendente di Joker -, entra in un rapporto di plagio/conflitto col guru Philip Seymour Hoffman – immenso attore -, vagamente ispirato alla figura di Ron Hubbard, fondatore di Scientology. Non si riduce però ad una denuncia delle sette pseudo-religiose ma è un film talmente denso di significati e stratificazioni di senso che sorprende ad ogni visione e ci restituisce il ritratto di un paese, l’America del dopo-guerra, moralmente allo sbando. E’ psicologia – si parla di tecniche manipolative di comunicazione -, sociologia – chi è più sano, il disturbato sociopatico Freddie (Phoenix) oppure la comunità plagiata dal guru? -, antropologia, in una storia dall’andamento erratico e assolutamente imprevedibile in cui il grande spettacolo hollywoodiano – girato in pellicola a 70 mm. – si mescola allo sperimentalismo autoriale più originale in un connubio irripetibile ed unico.
American Hustle (2013): la truffa come metafora di un intero Paese e del modo di vivere americano, nonché amara riflessione sui ruoli e le maschere che scegliamo di indossare nella vita. Christian Bale in una delle sue più grandi interpretazioni, dimesso, imbolsito, eppure eroico come solo un vero looser riesce a essere. Basato su una storia vera.
Birdman (2014): Iñárritu ci strabilia con i suoi piano-sequenza lunghi quanto un film e ci sorprende con un’opera di stampo teatrale che parla dei meccanismi della recitazione, del successo, dell’accettazione e del rifiuto di sé, dei compromessi che ne derivano, iniettando la storia all’interno di un meccanismo cinematografico perfetto. Michael Keaton in mutande per le strade di New York mentre cerca di rientrare in teatro è indimenticabile e significativo. Edward Norton è la sintesi dei capricci e dei vezzi di tutti gli attori snob.
Mad Max fury road (2015): un regista settantenne, George Miller, che con questa pellicola insegna ai colleghi più giovani come si gira un film d’azione degno di tale nome e come si crea un mondo futuribile credibile, che aveva già fatto storia con le opere predecessori. Sembrava impossibile tornare su un personaggio iconico come Mad Max ma Miller ci è riuscito e ci ha consegnato una lezione di cinema asciutto, con pochi dialoghi e personaggi indimenticabili. Il montaggio di Margaret Sixel, giustamente premiato con l’Oscar, è semplicemente da applauso.
Lo chiamavano Jeeg robot (2015): la riscossa del cinema italiano può ripartire solo dalla riscoperta dei generi e Gabriele Mainetti lo ha capito, confezionandoci un film che non è solo un cine-comic all’italiana, come alcuni frettolosamente annunciarono, ma un gangster-movie drammatico calato perfettamente nella realtà delle borgate romane in cui il protagonista, Claudio Santamaria nel suo ruolo migliore, solo per caso acquisisce dei superpoteri e li utilizza secondo un proprio codice morale personale.
Rogue one – A Star Wars story (2016): il miglior Star Wars dell’era Disney. Non che ci volesse molto, si potrebbe obiettare. Ma considerando il finale per nulla consolatorio, l’atmosfera tesa, il tono da film di guerra disperato, l’ineccepibile qualità visiva terrigna, nonché l’originalità della storia che va a tappare un buco di sceneggiatura presente nel primo episodio realizzato, ovvero Episodio IV – Una nuova speranza (1977), questo spin-off si rivelò una bellissima sorpresa. A conferma che i prodotti collaterali dell’universo lucasiano, ormai usurpato, sono più interessanti del canone: l’eccellente serie The mandalorian è lì a dimostrarlo.
Arrival (2016): mette in gioco il nostro rapporto con il Mistero, con l’Assoluto, sfruttando efficacemente il Sense of Wonder dello spettatore. Ulteriore tassello nel genere fantascienza filosofica, qui declinato in quella particolare branca tramite la quale si cerca di raccontare in modo credibile come avverrebbe il contatto tra gli umani e una civiltà aliena, nonché il modo in cui verrebbe gestita la cosa. Arrival riesce a dire qualcosa di nuovo, quarant’anni dopo Incontri ravvicinati del terzo tipo. Inoltre la vicenda intima e personale della protagonista Louise – la magistrale Amy Adams –, i cui frammenti temporali si ricomporranno solo alla fine, diventa parabola storica e universale.
La La Land (2016): film-saggio che è un omaggio al cinema e alla sua essenza, anzi opera fatta della stessa materia di cui sono fatti i film. Gioia per gli occhi, le orecchie e il cuore. Il piano-sequenza iniziale, sulle note di Another day of Sun, con il numero musicale nel bel mezzo del traffico della highway losangelina ha fatto epoca.
Logan (2017): il più bel cine-comic del decennio. Personaggi che si stagliano nella memoria e che, riecheggiando i looser dei western crepuscolari di Sam Peckimpah, devono compiere un’ultima disperata missione per potersi redimere. Rudezza della messa in scena e cinismo a bizzeffe; contesto suggestivo da road-movie fuori tempo massimo. Forse la metà delle cose è successa… e non così. Nel mondo reale la gente muore! Battuta di Wolverine-Logan che mette la pietra tombale su un genere.
Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017): vicenda paradigmatica sulla violenza e sull’America in cui non è tanto importante l’indagine per omicidio, quanto invece le reazioni della comunità nei confronti delle legittime rivendicazioni di una madre che ha perso la figlia. I tre manifesti del titolo mettono in imbarazzo la polizia di una piccola cittadina ma soprattutto mettono in luce i nervi di un intero Paese che si scopre ancora violento e razzista come non mai. Su tutto regna lei, Frances McDormand nel ruolo della sua vita. Al servizio della recitazione della McDormand e di un cast da urlo, c’è una sceneggiatura perfetta o forse è il contrario: la McDormand è al servizio di una sceneggiatura perfetta? Difficile dirlo.
Lazzaro felice (2018): Fiaba e realismo si congiungono egregiamente in quest’opera sorprendente di Alice Rohrwacher. Il personaggio di Lazzaro è uno spiraglio di purezza in mondo arcaico, spietato e classista. Ma le cose forse non sono come sembrano. Tutto viene ribaltato a metà film con un twist narrativo degno del miglior Shyamalan. Realismo magico al servizio di una fiaba morale. Un cinema italiano che sa spiazzare ed emozionare.
Joker (2019): non chiamatelo cine-comic, non perché ci sarebbe qualcosa di male, tutt’altro, ma semplicemente perché non lo è e chi vuole spacciarlo per tale è in malafede oppure non vuol vedere le cose come stanno. Detto ciò, la discesa di Arthur Fleck negli abissi della follia, complice la magistrale e sinuosa interpretazione di Phoenix, diventerà certamente un’icona della storia del cinema negli anni a venire. Immaginario scorsesiano saccheggiato (bene) a palate – Re per una notte su tutti – per una storia ambientata all’inizio degli anni Ottanta in una Gotham che è la New York di Taxi Driver, se possibile ancora più incattivita. Siamo tutti dei Clown.
Glass (2019): l’unico cine-comic davvero rivoluzionario del decennio. Shyamalan chiude la sua personale trilogia iniziata con The Unbreakable (2000) e proseguita con Split (2016) tramite un film assolutamente anti-spettacolare che però dice tantissimo sulla filosofia dei supereroi, più di mille film della Marvel. Azione trattenuta e simmetria visiva nelle relazioni tra i personaggi, rispecchiata anche nella simbologia dei colori che li rappresentano. Finale sorprendente con un twist inaspettato, come nelle corde migliori dell’autore de Il sesto senso (1999).
The Irishman (2019): il ritorno del grande Scorsese al cinema che gli è più congeniale, con un senso della pietas e di riflessione sulla Storia che mancava nei concitati capolavori degli anni Novanta. Con l’aiuto degli amici mostri sacri De Niro, Pacino e Pesci, The Irishman diventa l’esame di coscienza di un’intera nazione che trova nelle figure di Frank, Russell e Jimmy i Re Magi che offrono in dono a noi spettatori il cuore sanguinante di un autore che riesce a infondere tensione spirituale anche alle vicende più prosaiche. Molte polemiche per la produzione Netflix che ha imposto un’uscita limitata nelle sale ma, senza la tanto odiata piattaforma di streaming, non avremmo affatto avuto The Irishman.
Parasite (2019): commedia nera coreana, dall’atmosfera futuribile, che si trasforma in una spietata riflessione sulla società e sui rapporti di classe, dal ritmo indiavolato e dal finale sorprendente. Film cattivo che non risparmia nessuno: tutti, anche le vittime, possono diventare carnefici. La trovata dell’olezzo, sintomo delle classi meno agiate e percepito dai componenti della famiglia bene, vale più di mille analisi sociologiche.